“Decenni di un movimento sottoculturale non li racconti con un film girato male. Lettieri cambia canale!” Già campeggiano sulle mura di Napoli le reazioni dei tifosi azzurri al lungometraggio d’esordio di Francesco Lettieri, a conferma del fatto che quella degli ultras resta una società esclusiva, blindata, quasi impenetrabile. Ultras, nomen omen, che doveva essere distribuito nelle sale cinematografiche italiane per tre giorni, vede oggi la sua uscita esclusivamente su Netflix a causa della quarantena che attanaglia la popolazione. Una fortuna, se pensiamo a tutti quei film bloccati dalle disposizioni ministeriali (ormai internazionali) dei quali non riusciamo nemmeno a prevedere un’uscita, dati i drammatici sviluppi che si susseguono giorno per giorno, ora per ora.

Chiusi in casa, dunque, a ridefinire le proporzioni del problema Covid-19, che solo un mese fa, e ce ne eravamo convinti, veniva etichettato “semplicemente” come un’influenza molto contagiosa. È piuttosto inevitabile che Contagion di Soderbergh finisca per sembrarci iperbolicamente profetico mentre riorganizziamo il nostro quotidiano, i nostri piccoli e grandi rituali. Distanti e spesso soli, con occhi, orecchie e cuore tesi ai tragici aggiornamenti. Per contrasto, Ultras si rivela un racconto di epica contemporanea che fa della fisicità il suo perno. Non solo: in maniera quasi beffarda, il film di Lettieri utilizza gli spazi in modo così sapiente da renderli protagonisti. È così che il porto, l’esterno dello stadio San Paolo, il Rione Terra, la finta questura ricavata dall’ex base NATO a Bagnoli, i fondi di Baia e persino le grotte delle Stufe di Nerone respirano all’unisono con gli attori del film, spazzando via i pregiudizi sull’efficacia di Lettieri fuori dalla dimensione-videoclip. E la musica, motore primo della sua carriera, viene qui sfruttata in maniera estremamente misurata.

Una Napoli vista “di spalle” e dall’alto, in costante esplorazione di angoli e anfratti: il tessuto urbano più noto che si snoda in zone abbandonate e in quartieri più popolari. Lo stadio non è il palcoscenico, ma il punto in cui convergono in modo collettivo gioie, dolori, frustrazioni, ambizioni, istinti di rivincita e riscatto individuale. La storia si gioca nelle retrovie, con Sandro detto Mohicano (Aniello Arena, l’eccellente protagonista di Reality di Garrone) e il gruppo di diffidati degli Apache che si scontra col cambio generazionale di eredi più provocatori, rappresentati da Pechegno e Gabbiano. Angelo (Ciro Nacca), che ha già perso il fratello Sasà in uno scontro tra tifoserie rivali, si trova “nel mezzo”. Gli ultras sono una famiglia, Sandro il padre che non ha mai avuto, mentre la costante ricerca di un senso di appartenenza e di un riconoscimento lo avvicina al gruppo di Pechegno.

Due mondi, la “vecchia mentalità Apache” dipinta sul bar dell’Americano, e quella smaniosa d’azione dei riformati No Name Naples. Due gruppi che si contendono rispetto, seduzione, riconoscenza e legittimazione. Due modi di pregare, in fondo, laddove il calcio diventa una fede più forte del cambiamento e del riposo. Ma non è il calcio a svelare gradualmente le personalità dei protagonisti, quanto i loro più reconditi desideri, spesso trattenuti in nome di un codice del quale non si ritrovano più le motivazioni, una volta così fiere e salde.

Se il destino dei film sui tifosi sembra essere quello di essere contestato da chi non può giocoforza sentirsi rappresentato – come accadde all’opera (senza “s”) di Ricky Tognazzi – Ultras si configura come un ottimo espediente per raccontare la solitudine e l’emarginazione all’interno del gruppo. Nell’obiettare la parziale prevedibilità della ricerca dello scontro, come un Green Street in salsa partenopea, a colpire sono le modalità del racconto, quasi voyeuristico, che segue, pedina, svela e mette a nudo personaggi destinati a esibire durezza, per patto e vocazione. La tenerezza, intanto, penetra da ogni spiraglio come un incontrastabile raggio di sole.