Al suo cinquantesimo film, il primo in lingua francese, Woody Allen torna a girare a Parigi e riflette su alcuni temi a lui molto cari: la coppia e il tradimento, l’amore e la gelosia, il destino e la fortuna. Un colpo di fortuna si apre come una commedia romantica ma ben presto si tinge di giallo. La giovane e bella gallerista parigina Fanny (Lou de Laâge), sposata al ricco ma losco uomo d’affari Jean (Melvil Poupaud), incontra per caso Alain (Niels Schneider), un ex compagno di liceo ora scrittore, da sempre innamorato di lei.
Poche pause pranzo trascorse insieme - complice la bellezza dei giardini di Palais Royal d’autunno - bastano a far accendere la passione. Il marito, insospettito, si rivolge a un’agenzia investigativa e scopre che i due hanno una relazione. Intanto Camille (Valérie Lemercier), la madre di Fanny, arriva a Parigi a trovare la figlia e quando Alain scompare lei si mette a indagare.
I tanti indizi che Allen dissemina lungo tutto il film (fino al colpo di scena finale) non possono non farci pensare al precedente Match Point e al suo prologo, con quella pallina che rimane sospesa per un attimo sopra il filo della rete prima di cadere, per pura fortuna, di qua o di là. Se già in Crimini e Misfatti erano presenti l’adulterio, la scomparsa di un’amante e un assassinio impunito è solo in Match Point che Allen lega indissolubilmente il tema del delitto e della colpa a quello della giustizia e dell’imprevedibilità del caso (temi che poi riprenderà, anche se parzialmente, in Sogni e delitti e Irrational Man).
Accompagnato dalla fotografia satura e materica di Vittorio Storaro - che immortala una Parigi talmente perfetta e ideale da sembrare un po’ finta - Woody Allen continua a raccontare i suoi mondi, cristallizzati e sospesi, quasi senza tempo, ma allo stesso tempo ancora attuali. Allen percorre questa volta le vie di un’ironia sotterranea, che non ci strappa risate ma sorrisi amari e che prende le distanze dal reale regalandoci una Parigi da cartolina, da cui spunta qualche prevedibile cliché (scegliamo ad esempio le tre b di Birkin, baguette e brasserie) e qualche figura simpaticamente improbabile (killer che non sanno usare il fucile o investigatrici private che sono tutto tranne che invisibili).
In questo spazio si muovono però personaggi dai tratti e dai comportamenti umanissimi. Jean è un arricchito su cui pende l’ombra della misteriosa scomparsa di un vecchio socio: in lui si mescolano charme, menzogna, razionalità e tentativo di controllo. Il suo appartamento è dominato dai toni freddi del blu e del bianco e l’unica nota sgargiante è un enorme quanto inquietante trenino a comando, desiderato fin da bambino. Fanny e Alain sono invece l’emblema dell’amore romantico, della fiducia cieca nella vita e nella fortuna: sono innamorati e idealisti, passeggiano insieme nei parchi e si incontrano in una soffitta vista tetti, entrambi inondati da una luce calda, nei toni del giallo e dell’arancione.
Le piacevoli tracce dell’ormai immancabile colonna sonora jazz (tra cui spicca la famosa Cantaloupe Island di Herbie Hancock) e una sceneggiatura con dialoghi serrati e tempi a orologeria supportano la bravura degli attori: su tutti ricordiamo Melvil Poupaud, che veste i panni dell’affascinante e cattivissimo Jean, e Valérie Lemercier, alter ego alleniano che questa volta al posto di Dostoevskij legge - e rilegge – Simenon, le cui atmosfere ritroviamo anche nel finale del film, quando la quotidianità fa la sua comparsa nera e inaspettata.
Nel suo collaudato schema, che propone temi e dilemmi etici attraverso un racconto leggero, questa volta Allen aggiunge una riflessione: la fortuna non solo non la possiamo controllare ma la cerchiamo anche nel posto sbagliato. A volte il biglietto vincente della lotteria non si trova in un negozio ma dentro un bosco.