Questo mese è in sala Scorsese al Cinema Lumière fino a mercoledì 12 ottobre, in lingua originale sottotitolata, Café Society, l’ultimo film di Woody Allen, una romanzesca e agrodolce storia d’amore e un ritratto scintillante e caleidoscopico dell’America anni Trenta. Due collaboratori di Cinefilia Ritrovata sono andati a vederlo. A seguire, le loro considerazioni.

Anni Trenta: Bobby Dorfman è un giovane ebreo originario di New York che decide di partire alla volta di Los Angeles per fare carriera nel mondo del cinema. Grazie a suo zio, un pezzo grosso dell’industria cinematografica, Bobby inizia ad ambientarsi nella nuova metropoli e conosce Vonnie. L’incontro con la ragazza scombussolerà completamente i suoi progetti e si ritroverà a fare i conti con il destino.

Woody Allen torna, come di consueto, dopo un anno dal suo ultimo film, e lo fa in grande stile. Già dalle prime sequenze, accompagnate dalla voce narrante di Allen stesso, si nota una messa in scena fortemente estetizzante: la cura dei dettagli, dagli abiti alle ambientazioni, ci fanno immergere subito nell’eleganza della Café Society. Complice anche la fotografia di Vittorio Storaro, che dipinge una Los Angeles dorata, perennemente baciata dal sole, dove tutto e tutti risplendono d’irresistibile frivolezza. New York, al contrario, la vediamo rappresentata in toni più freddi, quasi lividi, che fanno da sfondo all’umile famiglia di Bobby, che vive nel Bronx.

Jesse Eisenberg si rivela perfetto per il ruolo di Bobby, un ragazzo estremamente ingenuo e insicuro che l’attore caratterizza assumendo una postura incassata, ingobbita. Gli abiti che indossa, eccessivamente larghi, gli conferiscono un’aria quasi ridicola, coronata dal continuo tic nervoso che compie con la testa: una sorta di cenno di diniego, quasi a sottolineare la propria incredulità di fronte alle situazioni subite.

Café Society si regge su equilibri che vengono ripetutamente sovvertiti: i progetti dei personaggi sono come carte da gioco, perennemente rimescolate dal fato. Contrattempi, tempismi sbagliati, coincidenze: contro il volere del fato l’uomo non può nulla. Proprio come viene affermato durante il film, “Life has its own agenda”: non importa quanti piani facciamo, la vita ha già i suoi.

Il tema della casualità e del destino, ricorrente nelle opere di Allen, torna nuovamente in questo dramma travestito da commedia, dal retrogusto amaro e malinconico. Ed è con frasi come “I guess some feelings never die. Is it a good or a bad thing?” che Allen va dritto al punto, interrogando sé stesso e noi tutti sui sentimenti, sulle scelte, sull’integrità morale delle nostre azioni. Alla romantica irrequietezza sentimentale che pervade i personaggi principali fa da sfondo l’affascinante skyline newyorkese, ancora una volta teatro di storie d’amore che non finiscono mai davvero.

Tanti sono gli spunti di riflessione che emergono senza mai appesantire la resa finale. La sceneggiatura, come sempre opera del regista, è ben bilanciata: tra i dialoghi serrati e le tipiche battute pungenti, si colgono i tanti strati di significato che Allen come sempre semina in ogni sequenza, anche in quelle apparentemente meno rilevanti.

Café Society si può definire il suo grande ritorno perché al suo interno ci sono quasi tutti gli elementi costitutivi della sua poetica, senza per questo risultare tedioso: la ridicolizzazione della religione, l’analisi delle conseguenze morali delle proprie scelte, la convinzione che sia il fato a governare il mondo, l’attaccamento a New York e – soprattutto – l’impossibilità di sottrarsi all’amore. Ciò che, ancora una volta, rende speciale Allen è proprio il saper divertire unito alla capacità di stimolare alla riflessione su temi profondi e complessi, che riguardano inevitabilmente ognuno di noi.

(Barbara Monti)

Come ogni anno, all’arrivo di Woody Allen, ci dividiamo in due gruppi. Quelli che, nonostante qualche “film minore”, come li chiamano loro, continuano a considerarlo un genio da una parte e i nostalgici di Amore e guerra, Manhattan e Io e Annie dall’altra, ovvero quelli che sostengono dovrebbe darci un taglio ché non glielo chiede nessuno a 81 anni di arrivare alla 47° regia.

Con Café Society Allen è ancora una volta divisivo, proprio perché ribadisce il suo amore per la commedia sofisticata di Billy Wilder e Ernst Lubitsch: nonostante i tempi comici impeccabili di Steve Carell, non siamo dalle parti di Basta che funzioni ma da quelle dei più recenti Irrational Man, Magic in the Moonlight e Blue Jasmine, dove con le contraddizioni dei personaggi si scivola nel patetismo malinconico piuttosto che in quello catartico che suscita risate. Allen propone la sua visione di Los Angeles e New York come fossero archetipi narrativi e ce le mostra per la prima volta digitalmente, fotografate in una cristallizzazione che solo Vittorio Storaro poteva immaginare. Al loro interno possono muoversi tranquillamente stereotipi che nella sceneggiatura di chiunque altro darebbero fastidio per quanto sono finti, ma qui funziona tutto.

Va detto che ad alcuni può risultare stucchevole questo rifugio che ogni anno Allen si crea per scappare dalla frenesia di un presente che non può e non vuole decifrare. E non possiamo biasimarli nel vedere i flirt impacciati di Jesse Eisenberg che però qui vanno a segno, perché qui le donne sono tutte così sorridenti e affascinate dalla sua goffaggine; o nel sentire, nel 2016, ancora un frasario colmo di cliché ai quali non possiamo più credere (semmai lo avessimo mai fatto), come quel “Ti ho amata dal primo giorno che ti ho vista” che istiga la malizia di chi sostiene Allen abbia ormai perso lo smalto.

Tuttavia è grazie all’epilogo che Café Society si fa apprezzare davvero, perché riesce laddove la maggior parte della romantic comedy contemporanea non osa nemmeno avvicinarsi. Un finale di un’amarezza impietosa, per certi versi coraggioso e realistico che trasforma il film in un affresco di istintiva finzione nel quale però batte potente un cuore sincero, come la volontà del suo autore a non fermarsi. Café Society è il melò dallo sguardo disincantato di cui abbiamo bisogno per fare i conti con i ricordi che formano la nostra persona e che al tempo stesso ne mettono costantemente in discussione l’esistenza. Perché niente finisce davvero.

(Brando Sorbini)