Quattro anni dopo lo sfortunato e maledetto Roma città libera, Marcello Pagliero, emigrato in Francia, realizzò quello che è generalmente considerato il suo capolavoro, mai uscito in Italia e al contempo considerato oltralpe un piccolo classico. Non stupisce questa ricezione così radicalmente diversa tra la patria del regista e la terra d’accoglienza: tratto dal romanzo di Jean Jausion edito nel 1945, Un homme marche dans la ville è tutto dentro l’orizzonte francese.

Anzitutto si inserisce nella prospettiva di quel “cinema portuale” che ha in Francia una storica tradizione, dalla trilogia marsigliese di Marcel Pagnol fino all’opera pressoché omnia di Robert Guédiguian, passando per L’Atalante e Il porto delle nebbie, solo per citare alcuni esempi. Ambientato, come questi ultimi due, nella settentrionale Le Havre, racconta un universo popolare pervaso dall’umidità e lambito dal vento, fatto di lavoratori che, a fine giornata, illudendosi di dimenticare la fatica, si scolano litri di vino al bar sempre aperto, e donne che aspettano a casa, badano ai figli ed immaginano alternative alla routine.

Ciò che forse ha determinato il positivo e duraturo riscontro da parte della critica francese risiede certamente nel realismo con cui mette in scena un mondo pieno di disuguaglianze, diviso tra servi e padroni e dominato da diverse sfumature dell’essere disgraziati. Ma l’indiscutibile valore del film si può individuare in almeno due sequenze: nell’incipit quasi documentaristico con il lavoro quotidiano degli scaricatori di porto; e nel finale aereo che osserva il peregrinare del protagonista nella città vuota e spoglia dentro quel che segue un’alba tragica, dove Pagliero fa incontrare tra le disperazioni complementari del corpo smarrito del personaggio e lo spazio angosciante di una realtà prestata alla finzione.

Il film, infatti, approfitta delle macerie postbelliche che caratterizzano la città per incastrare una storia particolarmente drammatica in un contesto incapace di comunicare l’ipotesi della speranza di un futuro migliore. Girato quasi tutto in esterni, con una cupezza che fa capolino sia quando rifulge un pallido sole sia nelle plumbee notti, narra il funesto triangolo formato da una donna frustrata e repressa, suo marito violento ed alcolizzato e l’amico disincantato che rifiuta le avances di lei.

Ad un tratto il mélo in potenza vira verso il noir, toccando il giallo il cui mistero è oscuro solo ai protagonisti, poiché a noi è reso subito evidente il colpevole di un delitto apparentemente privo di doppiezze per la sua linearità criminale. Si tratta significativamente di un pezzo dell’ingranaggio-porto avulso dalle dinamiche amorose del trio, ma che finisce per rinforzare la dimensione melodrammatica perché fa spostare il baricentro dell’indagine in direzione di un’ambiguità ben sostenuta dallo sguardo tenebroso e pessimista di Pagliero.