Il secondo e ultimo lungometraggio di Niki de Saint Phalle è un trionfo di fantasia e colori, un’esplosione di creatività che ridicolizza in esperimenti grotteschi ed esagerati la società capitalista espressione del potere patriarcale. Un’opera che riflette, attraverso la sua esuberanza, l’iperattività dell’artista francese, alla continua ricerca di nuovi modi di esprimersi.

Infatti, dalla pittura alla scultura, passando per l’architettura, Niki de Saint Phalle ha raccontato se stessa e la donna, divenendo famosa soprattutto grazie alle Nana, sculture policrome dalle fattezze femminili. È stato fecondo per il suo lavoro anche l’incontro con Jean Tinguely con cui ha realizzato diversi progetti e che ha collaborato al design delle inquietanti macchine presenti nel film.

In Un sogno più lungo della notte la fantasia dell’artista francese prende vita imprimendosi sulla pellicola e immergendo lo spettatore in un sogno capace di raccontare le ansie dell’oggi, ma anche un famelico bisogno di vita. Si tratta del sogno di una bambina, Camelia, pronta per andare a dormire, la sera dopo il funerale del padre, evento che le ha aperto uno scorcio nuovo e doloroso sulla realtà.

La luce si spegne, dissolvenza incrociata, e, come Alice nel paese delle meraviglie, Camelia fa il suo ingresso in un mondo folle e senza regole. Immediatamente ci troviamo in un giardino dorato dove la protagonista è accolta da un simpatico nano e da un drago buono, ma il paradiso è destinato a finire presto con l’abbandono dell’Eden verso il “mondo degli adulti”.

Il viaggio di Camelia, improvvisamente calata nell’età adulta grazie alla magia di una maga, racconta la psiche turbata di una bambina che per la prima volta si trova a contatto non solo con la morte, ma anche con la durezza di un mondo violento e iper-sessualizzato. In tal senso il film è molto coraggioso, mostrando la psiche di una bambina senza edulcorazioni, rendendola il riflesso, ma anche il risultato, della società di cui fa parte. Con uno stile che ricorda quello di Jodorowsky attraversiamo insieme a Camelia gli scenari più diversi e stravaganti in un flusso delirante, divertente, forse tenero, ma anche inaspettatamente crudo e violento.

Centrale nel film è l’incontro di Camelia con il maschile, associato sempre alla bruttezza e all’indifferenza delle macchine o delle armi, ma anche ad una sessualità prevaricatrice e dispotica. L’uomo è rappresentato tendenzialmente come un gendarme arrogante e possessivo che annulla la sessualità trasfigurandola nell’osceno, che non concepisce l’amore, ma solo la violenza.

Il successo della protagonista viene sempre negato dall’azione soverchiante degli uomini che se la contendono, uomini simbolizzati da enormi falli eretti dalle fattezze più stravaganti che, alla fine del film, sfilano su una collina all’orizzonte sul far della sera, ironica citazione della famosissima scena del Settimo sigillo di Bergman. Questa visione dell’uomo così decisa e distruttiva potrebbe essere anche una sublimazione del rapporto che la protagonista aveva col padre, curiosamente rappresentato come una figura ambigua mascherata.

Un sogno più lungo della notte è, però, soprattutto una straziante richiesta di libertà, un sincero desiderio di autodeterminazione e di vita. È quel “tesoro” promesso a Camelia dalla maga all’inizio del viaggio e che in un modo o nell’altro le viene costantemente negato. Non è un caso che il tema dell’essere legati o incatenati torni spesso durante il film, richiamando l’impossibilità della donna di poter decidere da sé il proprio destino in una società in cui è trattata alla stregua di un oggetto. In tal senso il finale metafisico potrebbe avere una natura ambivalente ed essere letto come una sconfitta, una ritirata nell’infanzia di fronte all’insensatezza soverchiante del mondo degli adulti.  

Il talento di Niki de Saint Phalle è in particolare quello di trasfigurare la perversione in un racconto esilarante e delicato dal quale emerge il suo sguardo sulle cose allo stesso tempo innocente e sovversivo. Uno sguardo anarchico che non nasconde la sua ingenuità infantile, unico strumento capace di scrutare al di là del “normale”, denunciandone la brutalità e l’insensatezza.