“Io so ciò che devo fare, ma non so se ho la forza di farlo”. Con questa frase, nel momento che segnava l’apice emotivo del mirabolante Il risveglio della Forza (2015), il Ben Solo di Adam Driver deponeva la propria maschera, ammettendo il proprio lacerante senso di vulnerabilità di fronte allo sguardo implorante del padre Han. In quel passaggio, al termine di quello che resta il più riuscito frammento della terza trilogia di Star Wars, si compiva la presentazione del personaggio più complesso di questo nuovo corso della saga. Un conflitto inedito, in cui abbracciare il Lato Oscuro non si rivelava come l’atto “più facile, più rapido, più seducente”, quanto invece una scelta consapevole, generata da un senso di ribellione nei confronti di punti di riferimento inadeguati. Volontà troncata però dall’inevitabile richiamo della Luce: forza che pervade le ascendenze di Ben a partire proprio da quel Darth Vader riproposto in questi revival come raffigurazione delle tenebre, ma eletto ad emblema di redenzione al termine dell’ingiustamente sottovalutato Il ritorno dello Jedi (1985).

Più ancora del dramma scaturito da un’identità perseguita e sempre negata che contraddistingue la protagonista Rey – troppo di rado investita del carisma necessario alla copertura di tale ruolo – è proprio nell’animo contrastato di Ben Solo/Kylo Ren che si rispecchiano tanto il tema cardine di questi ultimi film quanto il fulcro dell’intera operazione cinematografica: il peso opprimente di un’eredità sconfinata contrapposto all’emersione di una personalità propria.  Esattamente al modo in cui Ben è costretto ad instaurare un costante dialogo con il suo passato, anche il franchise stesso ha cercato una continua mediazione tra l’immaginario sedimentato nel corso di quattro decenni e la volontà di espansione di un testo potenzialmente illimitato. Spettò ad Abrams l’arduo compito di rispolverare la saga dopo l’acquisizione Disney e di nuovo lui, in questo capitolo conclusivo dell’epopea degli Skywalker, è chiamato ad uno scomodo atto di restaurazione dopo l’anarchico e dirompente finale del precedente Gli ultimi Jedi (2017).

Al culmine del suo crescendo conclusivo, il raffinato e polarizzante film di Rian Johnson recideva con decisione gran parte dei legami che ancoravano il nuovo Star Wars ai pilastri della mitologia lucasiana. Evento drastico, secondo alcuni, che viene neutralizzato fin dalle primissime fasi di L’ascesa di Skywalker, il quale tenta di riequilibrare le dicotomie scardinate e reinserire i due protagonisti nei collaudati schieramenti contrapposti. Archi narrativi che sembravano saldamente orientati ed in fase di risoluzione vengono qui ritrattati ed il superamento dei nuovi ostacoli indotto a passare attraverso la pacificazione con le vecchie glorie della “Galassia lontana lontana”, mentori cruciali nel definire le scelte e l’approdo finale. E se i nuovi arrivati necessitano dell’appoggio e della saggezza di chi li ha preceduti per completare i rispettivi processi di maturazione, gli autori ammettono al contempo di avere ancora bisogno di mantenere le radici della storia ben salde nel terreno confort, al fine palese di conservare l’aura attrattiva del marchio.

Una scelta di comodo sinonimo di scarso coraggio? Sì e no. Per quanto fosse intrigante l’idea di una soluzione volta al superamento delle strutture canoniche che regolano l’universo narrativo, era impensabile immaginare una chiusura di Star Wars che non rendesse un definitivo omaggio ai volti che ne hanno segnato l’ingresso nel pantheon dell’arte cinematografica. E così gli sguardi e le parole dei ritrovati Harrison Ford e Mark Hamill e soprattutto l’inevitabile e doloroso ultimo scorcio alla figura di Carrie Fisher, travalicano lo sterile ed estenuante tentativo di autocitazione da parte della saga, per diventare atti simbolici che legittimano gli ultimi episodi in quanto parte di uno dei più vasti prodotti seriali della storia del cinema.

E per il momento, in attesa della già annunciata nuova trilogia prevista per il nuovo decennio, questo può bastare. In un capitolo finale ipertrofico, eccessivamente ellittico e talvolta sfiancante, inadeguato nel generare l’epilogo magnifico che di cui è in cerca e che avremmo auspicato, i sentimenti nostalgici irradiati dal passato e riflessi dal presente si rivelano più che sufficienti ad elargire un conciliante saluto. Un tenero congedo di cui ci scopriamo a nutrire il recondito bisogno.