Teorema (1968) di Pier Paolo Pasolini viene generalmente letto, seguendo anche alcune dichiarazioni del regista alla presentazione del film alla contestata Mostra di Venezia del 1968, come un apologo sull’irrimediabile crisi della borghesia. Un ospite misterioso (Terence Stamp) irrompe nella vita inconsapevolmente infelice di una famiglia borghese di cui, attraverso rapporti sessuali con tutti i suoi membri, sconvolge gli equilibri. Dal film emergerebbe, quindi, una parabola sulla fisicità del sacro e sul sottoproletariato come unica forza riformatrice e dotata ancora di coscienza religiosa.
Tuttavia, proprio dopo aver spiegato in questo modo la scena del seppellimento urbano della domestica Emilia alla conferenza stampa di Venezia, il regista afferma che sia scortese rispondere alle domande che riguardano il film e che, dato il carattere enigmatico della scena, “è un po’ strano che una sibilla, dopo aver annunciato l’enigma, lo spieghi”. In un’altra intervista con la televisione francese, Pasolini afferma che non sia lui come autore a dover spiegare il significato del film. Si apre, allora, un nuovo orizzonte interpretativo, anche valorizzando storicisticamente il contesto di ricezione del film nella Mostra del 1968: Teorema come enunciazione sull’autorialità nel cinema, sulla tensione verso un discorso filmico anti-egemonico ma anche sulle inevitabili contraddizioni tra autorialità e industria cinematografica.
In un lungo articolo apparso su Il Giorno dieci giorni prima dell’inaugurazione della Mostra, Pasolini esprime la sua posizione sulla contestazione della gestione Chiarini, posizione che, come la stessa contestazione, prenderà diverse sfumature nel corso della manifestazione cinematografica. L’autore si trova concorde su molti argomenti della contestazione: in particolare, sul necessario impegno politico non solo delle opere cinematografiche, ma anche degli stessi registi e sul favorire una produzione che non sia sottomessa a intenti commerciali e speculativi.
Tuttavia, continua Pasolini, “l’artista non può essere obbligato a tacere” e deve “continuare a sfruttare cinicamente il sistema” per poter creare nuove strutture culturali e produttive. Ecco allora che la circolarità di Teorema, che inizia e ci riporta, nelle sequenze finali, ai luoghi della fabbrica (anche concepiti come deserto), che il capofamiglia Paolo (Massimo Girotti) vuole donare ai suoi operai, diventa metaforica dell’egemonia culturale borghese con cui l’autore cinematografico deve necessariamente confrontarsi dal punto di vista artistico ma anche produttivo. Non a caso, il dibattito tra gli operai sulla donazione della fabbrica è introdotto da un intellettuale come Cesare Garboli in un sottile gioco di trasposizione in chiave metaforica dell’immagine che continua anche con l’interpretazione del critico e poeta comunista Alfonso Gatto come medico di Odetta, figlia della famiglia borghese, interpretata da Anne Wiazemsky.
L’attrice, a sua volta, porta a Teorema la Nouvelle Vague, il suo impatto dirompente sulle convenzioni cinematografiche borghesi e il sostegno alla causa dell’autorialità. La stessa Silvana Mangano entra in questo scambio meta-filmico in quanto diva che ha sempre cercato di tenere in equilibrio le richieste commerciali dello star system e le sue scelte artistiche. Teorema è sicuramente una tappa fondamentale per il passaggio da un’immagine divistica basata sulla prorompete fisicità ad una più complessa e tormentata, in cui è la star ad avere il controllo sulla propria carriera. La prima scelta di Pasolini per il ruolo andato poi alla Mangano, Lucia Bosé, incarnava la stessa tensione e, insieme a Girotti, avrebbe ricostituito la coppia di Cronaca di un amore (1950), film cardine per l’innovazione del linguaggio cinematografico nel secondo dopoguerra.
Il Teorema sull’autore per Pasolini non può quindi che essere contraddittorio, quasi una negazione stessa del carattere del teorema che, stante alcune premesse, porta necessariamente a determinate conclusioni. Paradossalmente per il proprio titolo, Teorema diventa parte della lotta annunciata da Pasolini dalle colonne de Il Giorno contro la “nuova mitizzazione del razionalismo laico e progressista”, lotta che mostra, tuttavia, i necessari compromessi con il sistema e il ruolo ambiguo dell’autore.