La socializzazione all'ingranaggio produttivo di un giovane di comuni speranze: Christian (l'ottimo Franz Rogowski), poche parole e passato da dimenticare, viene assunto in prova come scaffalista in un ipermercato. Conosce l'affetto paterno del collega Bruno (Peter Kurth), le complicità e rivalità fra i diversi reparti, la sfida personale a domare il temibile carrello elevatore, e l'amore per l'addetta ai dolciumi Marion (Sandra Hüller). Tratto da un racconto di Clemens Meyer, anche co-sceneggiatore, Un valzer tra gli scaffali è una riflessione niente affatto banale sul mondo del lavoro, che si tiene a debita distanza dalle più abituali apologie o stigmatizzazioni, per rappresentare invece una rete di relazioni e sentimenti, talvolta felici talvolta tragici, nella quale le gerarchie del potere sono citate ma in realtà curiosamente assenti.
Su uno schema narrativo ultra-classico (spogliato di tutto, siamo dalle parti di Top Gun, tanto per dire), e per antagonismo retorico anche in sua virtù, il regista tedesco Thomas Stuber riesce a scavare in una grande ricchezza di toni, sfumature, sensibilità, ricavandone un milieu così stratificato da porsi al di là della dicotomia fra dramma e commedia a lieto fine. Quello che viene considerato il nonluogo per eccellenza, un enorme ipermercato di periferia, emblema della mancanza di relazioni e della transitorietà, viene trasmutato in un'unità viva, carica di significati per coloro che, accompagnati magari dall'Adagio di Albinoni, vi lavorano tutta la notte quando “gli ospiti” non ci sono, per poi tornare a casa a dormire e ricominciare daccapo qualche ora dopo.
Stuber sembra quasi divertirsi a filmare i larghi corridoi e le imponenti scaffalature con maestosità kubrickiana: gioca sull'esattezza e la marzialità delle simmetrie, li accarezza con luci basse e avvolgenti restituendone dal basso il senso di mistero, li accompagna con Sul bel Danubio blu di Strauss mettendosi in diretta competizione, quanto a eccentricità, proprio col moto delle navicelle spaziali di 2001: Odissea nello spazio. Ne trae il senso di un universo mondo chiuso e autosussistente, al tempo stesso fagocitante e protettivo, in grado di diventare personale, molto personale, per i suoi protagonisti: si fa complice di inconfessate disperazioni per alcuni, e (forse) di future gioie per altri. È uno sguardo interessante, peccato solo per qualche lungaggine di troppo, come se l'accorata ricerca di significante a livello minimo e quotidiano si fosse spinta oltre l'eccesso di dettaglio.