Presentato a Berlino, nella sezione Panorama, Una femmina è l’esordio dietro la macchina da presa del cosentino Francesco Costabile, testimone e narratore della piaga mafiosa calabrese. Ispirato al volume-inchiesta di Lirio Abbate Fimmine ribelli e cosceneggiato dallo stesso regista, insieme a Serena Brugnolo, Adriano Chiarelli e Lirio Abbate, il film è dedicato “a tutte le femmine ribelli” e “a tutte le vittime della ‘ndrangheta”.

In un paesino arroccato sull’Aspromonte, Rosa vive con la nonna e lo zio Tore nella fattoria di famiglia, ma la sua quotidianità è turbata dal nebuloso ricordo della morte della mamma. Stretta intorno a una bieca omertà, “a famigghia” tira su Rosa insegnandole a tenere gli occhi bassi, ma la natura indomita della ragazza la conduce a un destino già segnato: far implodere dall’interno il meccanismo violento del patriarcato mafioso e far luce sulla scomparsa della mamma.

Nel film non ci sono luci, solo ombre, in cui si affastellano le immagini taglienti e spigolose, come le nude rocce del paesino rurale in cui è ambientata la vicenda, affogata nella fotografia notturna di Giuseppe Maio e scandita dalla colonna sonora ottenebrante di Valerio Camporini Faggioni: una tragedia greca al tempo della ‘ndrangheta che inizia fuori fuoco e termina con l’esodo dell’eroina, circondata da potenti sguardi femminili in macchina; costruita sul modello di Anime nere di Francesco Munzi e vicina, ma solo per la tematica trattata, a La Terra dei santi di Fernando Muraca, Una femmina è l’affresco topografico di un “mondo altro”, microcosmo folle e sanguinario in cui i pater familias dettano leggi, stringono patti di sangue e annientano il potere decisionale delle madri e delle figlie di ‘ndrangheta, ancelle silenziose e osservatrici dell’imperium maschile.

La storia, il cui soggetto è di Edoardo De Angelis e Lirio Abbate, penetra fin nel profondo della cruda esistenza mafiosa ai margini della società, fino a diventare essa stessa parte del paesaggio, buia e spigolosa, in equilibrio tra sfocature ed ellissi che non ammettono sprazzi di luce, in cui ogni riverbero si consuma sulla pietra tagliente e si strozza sulle rive riarse. Come i ciechi di Wells, gli abitanti  vivono arroccati su impervie alture e non si interrogano più sul significato del vedere, perché chiunque provi a scrutare un po’ più lontano, viene castigato senza pietà.

E allora, dopo aver sollevato lo sguardo alla luna, dimenticando favole pastorali e antiche immaginazioni bucoliche, Rosa inizia a “vedere” più in là, costruendosi intorno una catarsi dello sguardo, suggellata dai diversi atti di cui si compone la storia: il ricordo rimosso, la presa di coscienza, la vendetta, l’accettazione di un destino già scritto. “Femmina” forte (l’esordiente Lina Siciliano, fiammeggiante e granitica), eroina della notte, sola contro gli uomini che comandano e prosperano, vuole sovvertire le regole del patriarcato criminale scardinandone i meccanismi dall’interno.

Diventando ella stessa materia mitica e rituale antico, Rosa introietta nello sguardo fiero il peso della rivoluzione in un racconto-exemplum dalle atmosfere terree e dai contorni indefiniti, in cui le diverse piste drammaturgiche convergono intorno a stilizzazioni espressive che rimandano alla tragedia e sposano soluzioni visive di grande fascino, tra il lirismo pastorale e la fiaba nera bucolica.