I sei film di Roberto Andò si somigliano tutti tra loro. Raccontano un mondo borghese, elitario, colto, dove i libri vengono ostentati nelle librerie in salotto ma non si perde occasione per dare prova di averli anche letti. Capiti? Forse, sicuramente citati. Le citazioni sono il sintomo di una cultura masticata, magari introiettata, al contempo estrapolata, decontestualizzata, resa altra. In Una storia senza nome si cita molto, troppo, di continuo. Quando Laura Morante, ghostwriter per il ministro dei beni culturali, ricicla una massima di Shaw per accontentare il politico bisognoso di mettersi in mostra con un omologo straniero, Andò conferma il cliché del suo cinema sfacciatamente letterario, a tratti incredibile per il mancato affrancamento dalle secche del libro stampato.

In questo caso, però, il regista declina in vario modo il concetto di citazione. Poiché ha programmaticamente deciso di fare un “film sul cinema, un atto di fede, ironico e paradossale” per la “voglia di ritornare a un tono leggero” (dalle note di regia), le citazioni hanno non di rado un carattere giocoso. Alessandro Gassmann fa uno sceneggiatore cialtrone che, nel momento del pericolo, si rivolge agli aguzzini citando, tra gli altri, Il generale Della Rovere e addirittura La grande guerra, tirando in ballo il fantasma del padre. Prendersi beffa del male ricorrendo al cinema? Il cinema come dispositivo per investigare e trascendere la realtà?

La dialettica trionfa con l’ingresso in scena di Jerzy Skolimowski, che potrebbe interpretare se stesso se nel film non si chiamasse Jerzy Kunze, un grande regista capitato in Italia per mettere in scena la sceneggiatura scritta da Micaela Ramazzotti, ghostwriter di Gassmann. Nell’ufficio della casa di produzione – un socio è un nobile siciliano, tipo certi produttori picareschi del dopoguerra – sono esposte molte locandine finte, tranne tre: Il vergine, L’australiano e Moonlighting. Facile. E poi Kunze gira rapidamente, con inquadrature che non sarebbe difficile attribuire a Skolimowski stesso, in una dinamica cinematografica molto anniottanta.

Potremmo continuare, ma è chiaro che questi occhiolini siano fatti per accattivare lo spettatore più scafato e portarlo in un gioco di specchi potenzialmente infinito e alla lunga stucchevole. D’altronde quello di Andò è davvero un cinema sotto falso nome, fondato sulla figura del doppio, del non-detto, dell’ambiguità. In Una storia senza nome – che sin dal titolo porta all’estremo questa indecifrabilità – tutti i personaggi sono sdoppiati e raccontano solo pezzi di verità.

La scomparsa della Natività di Caravaggio, rubata forse dalla mafia quasi cinquant’anni fa, è il tema del film nel film, un intrigo dentro l’intrigo. La realtà interroga la finzione per costruire ipotesi narrative rocambolesche ed incalzanti, con la ghostwriter chiamata al ruolo di eroina in collaborazione con un misterioso ex poliziotto. Poteva essere una specie di ingegnosa Italian Crime Story incrociata con le allegorie alla Rosi e il grottesco di Petri (niente di nuovo, però…), con una spruzzata de L’uomo nell’ombra. Ma è il film ad essere un’ombra: l’ombra di una commedia, di un poliziesco elegante, di un noir tra le dimore mafiose e Palazzo Chigi, di una satira inquietante (“il cinema e il crimine hanno sempre avuto un certo feeling”), di una regia all’altezza, di una recitazione straniante che finisce per essere non di rado ridicola, di una pretesa ironia (come quando si staglia imprevista Disperato erotico stomp, per tacere del finale).