Nella new wave sarda che dialoga con il “continente” rivendicando uno sguardo autonomo e speciale (qualche nome: Salvatore Mereu, Enrico Pau, Giovanni Colombu, Paolo Zucca, Bonifacio Angius…), Peter Marcias è forse l’esponente più versatile e dimostra sempre molta disinvoltura nel passare dalla fiction al documentario. Uno sguardo alla terra rappresenta un punto d’arrivo nel suo percorso, l’occasione per confrontarsi sia con un caposaldo della cinematografia locale sia con le esperienze di colleghi internazionali.

L’idea è affascinante: interrogare questi cineasti contemporanei su L’ultimo pugno sulla terra, il documentario realizzato da Fiorenzo Serra nel 1964 e risorto nel 2008 grazie al restauro promosso dalla Cineteca sarda con L’immagine ritrovata. Il film, commissionato a Serra dalla Regione in seguito al Piano di Rinascita (un programma di finanziamenti e misure legislative speciali per favorire l’industrializzazione), fu ostracizzato dagli stessi committenti e smembrato in cortometraggi. L’affresco socio-culturale, considerato troppo aspro e realistico, raccontava un territorio arretrato, fatalista, fortemente segnato dalle disuguaglianze sociali, dimenticato dal centro: pastori che vivono lontano da casa buona parte dell’anno, donne immerse nel rito sacro della preparazione del pane carasau, fedeli devoti all’Imperatore Costantino benché non sia un santo riconosciuto dalla Chiesa, lavoratori praticamente schiavizzati nella pesca, uomini che partono per il continente e salutano le donne piangenti al porto.

Pressoché dimenticata, la testimonianza etnografica di Serra trova così un’altra vita grazie allo sguardo dei registi intervistati da Marcias, convinto che l’universalità del film possa coinvolgere anche chi opera anche all’altro lato del mondo, offrendo la possibilità di spiegare, attraverso la visione di questo film antico ma nuovo perché finalmente visibile, il loro metodo di lavoro. L’ambizione è importante: ridare a Serra quel che è di Serra. Rimettere al centro del discorso un outsider tanto immerso nell’oggetto del suo racconto quanto ferito dal trattamento riservatogli.

La strada scelta è interessante, ma accanto ad interventi che riescono a restituire una visione personale del fare cinema (su tutti il cinese Wang Bing, l’iraniano Mehrdad Oskouei, l’afgana Saharr Karimi e soprattutto lo spagnolo José Luis Guerin che ammette coraggiosamente di non fare cinema per migliorare il mondo) ce ne sono altri che non sanno del tutto emanciparsi da una prospettiva ora un po’ banale ora vagamente autoreferenziale. Più puntuali gli appunti critici di Piera Detassis, che assolve ad una necessaria funzione didattica, e i ricordi di Manlio Brigaglia, amico e collaboratore di Serra. A lui si devono i frammenti più belli: l’evocazione di Cesare Zavattini che commenta “una danza di pecore” e l’immagine di Serra davanti alla mitologica pressa Catozzo.