La forza del cinema jugoslavo del secondo dopoguerra è la parabola di un cinema politico coraggioso, impavido, che spreme e sfrutta al massimo i mezzi produttivi a sua disposizione per raccontare l’impeto – non “nascente”, ma fortemente radicato e mai sopito – di una narrazione volta a fotografare, contrastare e quindi capovolgere le realtà sociali di riferimento. Come? Risultando straziante e impietoso nella messa in scena, ma senza mai abbandonare il potenziale alto – sublime – dell’illusione.

Il cinema degli anni ’50 e ’60 in quello che da Regno dei Serbi, Croati e Sloveni si trasformò attraverso grandi tumulti sociali in Repubblica Socialista Federale fu un cinema critico, feroce, e allo stesso tempo capace di grandi magie. Un crocevia di geografie e di sguardi in cui le differenze e gli scontri riuscivano talvolta miracolosamente a esaurirsi nelle dinamiche di produzione artistica, fin dagli esordi dei registi che posero le fondamenta della cosiddetta Onda Nera (Crni Val). Un cinema che si dimostrò unico proprio per quella capacità trasversale di guardarsi indietro e guardarsi dentro. Sono opere in bilico tra passato, presente e modernismo, attente al proprio contesto in costante dialogo con i mutamenti esterni.

In fondo, questo percorso ideale che va dal 1954 al 1969 è un cinema di viaggi strazianti che sono innanzitutto specchio di un viaggio interiore, una narrazione tracciata da sangue, sudore e lacrime. Un percorso che dalla Seconda Guerra mondiale si muove attraverso il regime comunista di Tito, indagando totalitarismi, società postbelliche, rivoluzioni industriali, psicologie individuali e collettive e, naturalmente, l’amore. Tutto filtrato dalla consapevolezza, spesso atroce, che conserva come meta irriducibile un orizzonte di speranze, sogni, aspirazioni. Un colpo ben assestato al cuore dello spettatore, laddove la violenza dell’uomo lascia il posto alla disperata ricerca di un candore perduto.

È il viaggio del partigiano Neven in Ne okreći se, sine (Don’t Look Back, My Son, 1956), che sfugge alla prigionia del campo di concentramento di Jasenovac e fa ritorno a Zagabria, ritrovando il figlio indottrinato secondo l’ideologia clerico-fascista degli Ustascia. Firmato dal regista croato Branko Bauer, Ne okreći se, sine è un tassello importantissimo nella cinematografia mondiale e un autentico spartiacque del cinema bellico. Lo sguardo bambino zavattiniano, che tutto osserva e che finisce per subire le decisioni del mondo adulto, è qui invece invitato a non guardare, o meglio, a non guardarsi indietro, nello strenuo tentativo di preservare sogni di libertà fino a quel momento abortiti. È la rivendicazione di una dimensione infantile persa nella ferocia di un mondo troppo adulto che, al contrario del neorealismo italiano, tiene viva la speranza di ricucire le ferite di un conflitto generazionale esacerbato dalla guerra. E se Neven riesce a saltare giù dal treno che lo avrebbe condotto verso morte certa, il viaggio verso la liberazione del figlio Zoran non sarà meno arduo e doloroso. Perché tracciare la strada verso la libertà, renderla visibile, richiede un sacrificio più grande della morte.

Ma la disperata rivendicazione di un’infanzia negata si fa paradossalmente più vivida in un film piccolissimo: Bunt na kuklite (The Rebellion of the Dolls, 1957), un cortometraggio dimenticato e mai così potente. È l’esordio finzionale del cineasta macedone Dimitrie Osmanli, il suo invito – non una richiesta: un vero e proprio urlo! – a riallinearsi a sogni bambini. La parabola di un piccolo protagonista che gioca a fare la guerra, così seriamente da ricalcare anche nel mondo onirico dinamiche di prepotenza e minaccia: soldatini e carrarmati giocattolo contrapposti a tenere bambole o, piuttosto, a sogni su misura di bambino. Il capovolgimento surreale e inquietante, la “rivolta delle bambole” immaginata da Osmanli, anticipa sorprendentemente le atmosfere di The Twilight Zone nel tentativo di sanzionare chi sacrifica il proprio sguardo infantile sull’altare della vendetta e dell’arroganza. In Bunt na kuklite pulsa e vibra la lezione di Bauer con uno sguardo magico capace di esorcizzare la tragedia.

Riflettendo su questo aspetto cruciale del cinema di fine anni ‘50, non è un caso che il gioco diventi l’incipit di un film come Deveti krug (The Ninth Circle, 1960). Rotolano i dadi e si muovono le pedine: un ragazzo e una ragazza (Ivo e Ruth) si sfidano in un gioco da tavolo che assomiglia pericolosamente allo specchio delle proprie esistenze. Per salvare la vita a Ruth, di famiglia ebrea, Ivo la sposerà con rito cattolico nel tentativo di sottrarla alle persecuzioni del regime Ustascia. Il matrimonio, che coincide con un’escalation di repressioni sociali sempre più efferate, segnerà un inaccettabile passaggio all’età adulta per Ivo. Sarà l’amore a ricucire responsabilità e sogni insieme, nel tentativo estenuante di sfuggire alle violenze del mondo.

Il film di France Štiglic, sloveno di origine, sembra riprendere il filo spezzato di Ne okreći se, sine, esplorando con sensibilità struggente dinamiche psicologiche di tenerezza, empatia e sopraffazione nella Croazia antisemita. In questo caso, tale rivendicazione si fa fortissima nella sequenza di Ruth che fa della città deserta il proprio campo da gioco, svuotata dalla segnalazione di un bombardamento. Una scelta di regia che racconta ancora una volta la distruzione di una dimensione ludica, spensierata, e che evoca la fuga di Ruth non solo dalla persecuzione, ma anche dalle difficoltà della coppia, la fuga da responsabilità troppo grandi, troppo severe per l’età dei protagonisti. Deveti Krug, il primo vero miracolo di collaborazione tra repubbliche jugoslave, fu il primo film diretto da un regista jugoslavo a essere candidato all’Oscar, e in qualche modo spianando la strada ad Aleksandar Petrović.

È Tri, nel 1965, a riportare il cinema jugoslavo all’attenzione internazionale con una nuova nomination all’Oscar a due anni dall’uscita nazionale del film. L’opera di Petrović è un’epica suddivisa in tre parti distinte ma con un unico grande protagonista (Velimir “Bata” Živojinović) nei panni di un personaggio che ricopre rispettivamente il ruolo di testimone, vittima e carnefice durante la Seconda Guerra Mondiale. Se nel primo episodio Miloš assiste all’esecuzione di un uomo innocente, condannato tanto dai soldati tedeschi che dalla folla, nel secondo assume il ruolo di partigiano, in fuga insieme a un compagno nell’impervia campagna jugoslava. Ma è nel terzo episodio che Miloš si troverà a vestire i panni di ufficiale, sacrificando nel feroce giudizio postbellico i sentimenti più puri e viscerali che è capace di provare.

Con la sua imponente opera critica, che ragiona impietosamente sulla società jugoslava prima e dopo il conflitto mondiale, Petrović pone ufficialmente le basi della cosiddetta Onda nera. E sarà Dušan Makavejev a rafforzare un processo di legittimazione artistica con uno straordinario lungometraggio d’esordio, Covek nije tica (Man Is Not a Bird, 1965). A nove anni di distanza da Zenica di Jovan Živanović e Miloš Stefanović, un film che metteva i sogni della coppia nel bel mezzo dell’industrializzazione post-bellica, Covek nije tica recupera il melodramma amoroso con più disincanto che drammaticità. Nello scenario industriale dove le disuguaglianze sociali si fanno marcate quanto gli strascichi della guerra, amore e morte danzano senza esclusione di colpi e humour nerissimo. La voce dell’ipnotizzatore Roko incornicia la storia di Jan e Rajka in una dimensione trasversale e sospesa, un continuo back-and-forth tra il contesto sociale e quello sentimentale, fino alla sovrapposizione lucidissima di entrambi.

Dal più godardiano Ples v dežju, onirica e “francesissima” storia d’amore (nel senso estetico ed etico della nouvelle vague) di Boštjan Hladnik, passando per Zaseda di Živojin Pavlović e il corto di Želimir Žilnik (Pioniri maleni mi smo vojska prava, svakog dana nicemo ko zelena trava, un “docudrama” disarmante su giovani vite spezzate, dimenticate, incomprese), l’esplorazione de Il Cinema Ritrovato nel cinema jugoslavo è un modo più unico che raro per ripercorrere le tappe di un periodo storico miracoloso e di incontri cinematografici irripetibili.