La regista tedesca Margarethe von Trotta ha sempre detto che Ingmar Bergman è il suo Maestro. Ma quando la produttrice Konstanze Speidel le propose di girare un film sul regista svedese, lei inizialmente rifiutò l’idea: “non è possibile, ho troppa paura e lui è troppo grande.” Il suo primo documentario Searching for Ingmar Bergman fa parte della rassegna dedicata al regista svedese in occasione del centenario della sua nascita. “Finalmente non potevo più negare di essere innamorata - e lo sono sempre stata - di Bergman - non come le altre donne, ma come una regista verso un altro regista.” La reverenza verso il suo genio artistico, la mancanza di fiducia in sé e l’ispirazione che dà vita a nuove passioni sono al centro del rapporto tra von Trotta e Bergman.
Il colpo di fulmine la colpì a Parigi all’inizio degli anni Sessanta. Von Trotta ammette che all’epoca non nutriva un particolare interesse verso il cinema. Ma Il Settimo sigillo (1957) fu come “un choc culturale e artistico - una vera rivelazione.” Con le sue immagini, Bergman toccò qualcosa di profondo in lei, svelandole una verità profonda sulla condizione umana.
Cinquant'anni dopo la prima, travolgente, visione del film, von Trotta è ormai una regista affermata, proiettata tra i grandi autori del cinema tedesco a partire dal suo film Anni di piombo, vincitore del Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1981. Mentre presenta la versione restaurata de Il Settimo sigillo in Piazza Maggiore a Bologna, è commossa. "Quando ho visto questo film mi è venuta la voglia tremenda di fare cinema almeno una volta nella mia vita,” racconta al pubblico. “Ho aspettato diciassette anni prima di poter produrre il mio primo film, ma è Bergman che mi ha dato questo slancio e questa voglia. Per questo gli sarò grata per tutta la vita.”
Girare un documentario è stato il suo modo di rendere omaggio al personaggio che l’ha così tanto influenzata. Ma cosa poteva dire di un autore su cui, per sua stessa ammissione, “tutto è già stato già detto, scritto, filmato?” Si rivolse a Jan Holmberg, CEO presso la Ingmar Bergman Foundation, che le consigliò di approcciare il tema da un punto di vista molto personale, inserendosi nel documentario per evidenziare l’eredità di Bergman. “È stato un buon consiglio” conferma Von Trotta, “era l’unico modo di farlo, per me: tutti i miei film hanno a che fare con me stessa. La stessa cosa è successa con Bergman, tutti i suoi film sono, per certi versi, autobiografici.”
Il documentario, infatti, illumina emozioni molto personali della regista tedesca attraverso un focus sulla vita e sulle opere di Bergman. “Ho ancora l’impressione che lui sia davvero mio padre,” spiega la regista, “dipendo ancora da lui.” L’inquadratura della scena finale del documentario sembra confermarlo. Alla fine del viaggio ‘alla ricerca’ di Ingmar Bergman, von Trotta si ritrova nel punto esatto in cui è nata questa dipendenza, ovvero la spiaggia della scena di apertura de Il Settimo Sigillo: sola, al centro di un paesaggio tagliente, lei appare piccola, vulnerabile, con il volto rivolto verso le scogliere da dove, un tempo, Bergman guardava giù dalla sedia da regista. “Ho paura di non aver mai superato questa insicurezza” ammette tuttora von Trotta.
Anche Bergman, come testimoniano nel documentario i suoi più stretti collaboratori, era tormentato da una grande paura di non essere all’altezza. Katinka Farago, la sua assistente di produzione per trent’anni, ricorda come Bergman si svegliasse la mattina delle riprese pietrificato dalla paura. I due rimanevano in una stanza al buio anche per mezz’ora, tenendosi per mano in silenzio, prima di poter affrontare il lavoro. “Aveva bisogno di questo contatto umano per tirare fuori la propria forza” spiega Von Trotta, “perché è sempre stato ansioso. Temeva la vita.”
È in questi spazi e momenti di apparente isolamento e oscurità che ci si riconosce. Il vuoto che tormentava il cavaliere ne Il Settimo Sigillo rispecchia le paure di Bergman e quelle di von Trotta - ma il riconoscimento sullo schermo è come quella mano nel buio che conferma l’esperienza e dalla cui intensità si può trarre energia, ispirazione e voglia di creare. Ad attingere dall’eredità di Bergman e ad offrire le proprie testimonianze ci sono anche Carlos Saura, Olivier Assayas, Ruben Östlund e Mia Hansen-Løve. Quest’ultima racconta a Von Trotta di sentirsi leggera, persino sollevata durante le riprese sulla remota e suggestiva isola Fårö, set del suo nuovo film Bergman Island (2019) e ultima dimora del Maestro svedese.
Un’ultima domanda: Bergman avrebbe mai dedicato un documentario a un suo Maestro, un regista che lui ammirava? “No” dice Von Trotta, “lui non l’avrebbe mai fatto. Nessun uomo lo farebbe. I registi uomini sono dei protagonisti.” Con Il posto delle fragole (1957) ha tuttavia reso omaggio a Victor Sjöström, il cui film Il carretto fantasma (1921) era tra i suoi preferiti. E aveva amato anche Anni di piombo della stessa von Trotta. Searching for Ingmar Bergman dà luce a una costellazione di influenze che trasformano quel “non è possibile, ho troppa paura” in una multiforme forza creativa.