La carriera registica di S. Craig Zahler si apre nel 2015 con un’inquadratura dall’alto sul mezzo busto di un uomo. Questo giace appisolato su un terreno polveroso quando due mani invadono il quadro improvvisamente; una afferra la testa per immobilizzarlo e l’altra impugna un coltello con cui apre la gola dello sventurato dormiente. Nei primi fotogrammi di Bone Tomahawk (2015), si possono già scorgere alcuni degli elementi che contraddistinguono il marchio di questo autore, cui sono bastati tre film per affermare un’impronta stilistica solida e riconoscibile. Inventiva e aggressività si coniugano nel cinema di Zahler ad un’innata capacità di incanalare sentimenti complessi all’interno di una scrittura limpida, concentrata e sempre rivolta all’azione. Un cineasta la cui poetica si palesa come una dichiarazione di guerra alla didascalia, optando per una forma di racconto asciutta, in cui mondi e contesti non si esplicano nella sottolineatura dei loro aspetti più evidenti, ma bensì grazie ad un’attenzione maniacale ai dettagli della messa in scena ed ai tratti della caratterizzazione dei personaggi. E proprio in questo modo il sopracitato incipit, avente come protagonisti David Arquette ed il compianto Sid Haig, imposta il tono della propria voce semplicemente mostrando ciò che agli spettatori verrà chiarito nei minuti successivi.
Per Zahler ogni fotogramma è un raro bene dal valore inestimabile, un dono da non sperperare nell’enunciazione verbosa di ciò che può essere dedotto semplicemente scrutando le figure che si muovono sullo schermo. Parliamo di un cinema che individua il proprio fulcro narrativo nella mostrazione più che nella spiegazione. Una drammaturgia che descrive i personaggi attraverso null’altro che il loro modo di agire e reagire alle continue collisioni con l’esterno. Un’inclinazione che porta le opere di questo regista ad essere sempre orientate ai generi, ed alla loro continua combinazione. Così un western dalla struttura classicheggiante come il suo film d’esordio viene investito dai connotati gore che hanno segnato l’horror di inizio millennio.
Un processo di sperimentazione che non si è risolto con una prima folgorante fiammata, ma che è stato alimentato da produzioni successive al limite dell’inclassificabile, come il brutale Brawl in Cell Block 99 (2017), in cui dramma famigliare, gangster e action vengono sintetizzati in un prison-movie concepito come una graduale ed inesorabile discesa infernale. O ancora il poliziesco che sfuma nelle tinte ombrose del thriller in Dragged Across Concrete (2018), capolavoro presentato fuori concorso alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia e che ha segnato la consacrazione definitiva dell’impronta giocosa e sofisticata di questo romanziere brillantemente approdato al cinema.
Ed è soprattutto quest’ultimo frammento della sua attuale filmografia che mette in luce, ancor prima di un’abilità innata nel coordinare l’azione scenica, la naturalezza con cui Zahler riesce ad attribuire uno statuto irrinunciabile ad ogni minimo frammento filmico. Abbandonando il ritmo incalzante dell’opera precedente in favore di un procedimento blando, interrotto talvolta da vampate di inattesa crudeltà, Dragged Across Concrete si ammanta di un alone quasi lisergico, un’esperienza multisensoriale che genera un senso di partecipazione in grado di abbattere la distanza incolmabile tra mondo reale e realtà diegetica.
Sequenze di attesa, dialoghi interminabili eppure così scarni di parole. Dimentichiamoci le virtuosistiche conversazione alla Tarantino o gli scambi taglienti e serrati di Martin McDonagh, qui siamo in un scenario contemplativo in cui a farla da padrone sono dei pesantissimi silenzi gravidi di significato. Il tutto mirato all’instaurazione di una prossimità in grado di impregnare di realismo e carica empatica anche personaggi respingenti come i protagonisti dei film menzionati. Degli antieroi secondo manuale, uomini dalla moralità ambigua che per raggiungere scopi altruistici si trovano a doversi confrontare con la parte più tenebrosa del proprio io.
Perché se a livello formale il lavoro di Zahler si distingue per una vocazione al genere di stampo quasi carpenteriano, sul piano tematico ognuno dei gioielli filmici che compongono la sua attuale filmografia rappresenta un viaggio umano verso l’area delle proprie paure più recondite. Un confronto con gli aspetti più temibili della propria esistenza, affrontati non tanto per sé stessi quanto più per la salvezza delle persone care, nel nome quindi di un bene superiore che riesce a commutare in martiri anche dei caratteri all’apparenza irascibili e scostanti. Questo rende S. Craig Zahler uno dei maggiori narratori contemporanei del concetto di redenzione, laddove redimersi significa scendere a patti con un mondo che esige il peggio dall’essere umano, riconoscervi se stessi e offrirsi ad esso come tributo affinché la sua fame di disperazione venga saziata.