Esistono film per i quali ogni tentativo di catalogazione va stretto come il mitologico Letto di Procuste, un malvagio protagonista del mito greco che stirava a forza i malcapitati se troppo corti, o li amputava se i loro arti erano troppo lunghi, per farli stare sull’eponimo letto a forma di incudine. Allo stesso modo, ci sono film che trascendono ogni tentativo di ingabbiarli in un genere o in una forma. Prendiamo il Nosferatu (1922) di Murnau o Caligari (1920) di Wiene: sono essi film horror, o comunque di genere fantastico? Sì, innegabilmente. Ma altrettanto indubbiamente sono monumenti della storia del cinema, opere fondatrici del movimento artistico che conosciamo come espressionismo. E ci sono pellicole addirittura più strane, uniche, aliene, dirette da altri registi che hanno fatto del cinema un’opera d’arte al pari di discipline come la letteratura e la pittura.
Quel monumento che è il Vampyr (1932) di Carl Theodor Dreyer è un film di confine: e non solo fra il cinema fantastico e il cinema d’autore, ma anche fra il muto e il sonoro. Il regista danese Dreyer, uno dei più grandi esponenti della cinematografia mondiale, veniva da una vetta assoluta del cinema muto, La passione di Giovanna D’Arco (1928): con l’horror seminale Vampyr, frutto di una co-produzione tra Francia e Germania, Dreyer abbraccia per la prima volta il sonoro (il film fu doppiato in tre lingue, inglese, francese e tedesco), ma mantiene al contempo alcune caratteristiche stilistiche del muto, come la presenza di didascalie esplicative e l’onnipresenza della musica. Il riferimento precedente a Nosferatu non è casuale, poiché il sentimento comune di critici e spettatori colloca spesso il Vampyr di Dreyer insieme al film di Murnau e al Dracula (1931) di Tod Browning in un’ideale trilogia fondativa sul mito del vampiro: tre film, tre mitologie diverse che hanno posto le basi di un certo tipo di cinema fantastico, ciascuno con un proprio stile e una propria narrazione peculiare.
Non è un mistero il fatto che Vampyr vide la luce grazie ai fondi concessi dal barone Nicolas de Gunzburg alla compagnia artistica fondata da Dreyer, il quale veniva dall’impresa titanica e complessa de La passione di Giovanna D’Arco. Il nobile era un ebreo di origini russo-polacco-brasiliane, un avventuriero giramondo che si costruì una carriera nella moda, e che come unica condizione allo stanziamento del denaro necessario pose quella di essere lui stesso – con lo pseudonimo di Julian West – il protagonista del film. La produzione poteva però contare su un budget non troppo alto, così non fu costruito nessun set (unica eccezione, il cimitero, che fu ricreato in studio), e tutto fu girato in vere location vicino a Parigi, Senlis e Montargis (ricordiamo che il film è una co-produzione franco-tedesca). Per cui, quella dove il protagonista si reca all’inizio è una vera locanda, così come il luogo dove egli vede le ombre e il malefico dottore è una fabbrica del ghiaccio abbandonata, l’edificio del finale è un vecchio mulino, e il tetro maniero dove si svolge il corpo della vicenda è un castello in rovina.
Come dichiara la didascalia iniziale, il soggetto è ispirato a In a Glass Darkly, un romanzo dell’irlandese Joseph Sheridan Le Fanu, il più celebre scrittore di storie di vampiri insieme a Bram Stoker, autore anche di quel racconto Carmilla che sarà fonte di ispirazione successiva per numerosissimi registi. Ma quello di Dreyer è solo un incipit ispiratore, da cui poi il regista parte per costruire e sceneggiare una storia tutta sua, inserendovi anche elementi presi da altri scrittori gotici, suggestioni ricavate del folklore scandinavo, nonché una citazione dal celebre racconto di Edgar Allan Poe The Premature Burial, che dà vita a una delle sequenze più celebri del film.
Protagonista è Allan Gray (Julian West, sulla cui identità si è già detto), un viaggiatore che al calar della sera giunge nel villaggio francese di Courtempierre, trovando alloggio in una locanda. Lì viene raggiunto da un uomo, che gli lascia un pacchetto con l’istruzione di aprirlo alla sua morte; poi, seguendo alcune ombre, giunge in un fatiscente edificio dove le vede ballare, e dove incontra alcune sinistre figure – un vecchio, un soldato con una gamba di legno, una misteriosa donna anziana. Allan Gray si reca poi in un tetro castello nelle vicinanze, e da una finestra vede l’uomo della locanda mentre viene ucciso con una fucilata da mano ignota. Al viandante è concesso passare la notte nel maniero, e aprendo il pacco trova un libro, intitolato La strana storia dei vampiri, scritto da un tale Paul Bonnant e risalente al 1820, nel quale legge alcuni terrificanti racconti su queste creature della notte.
E proprio a un vampiro sembra dovuta la sciagura che grava sulla famiglia, visto che una delle figlie del padrone giace a letto ammalata, per poi essere morsa nel giardino da una misteriosa figura. Al castello giunge il dottore, che Gray riconosce come il vecchio che aveva visto nel luogo delle ombre, e anche l’altra figlia viene rapita. Grazie alle istruzioni contenute nel libro, il giovane ospite e un servo scoprono come neutralizzare il vampiro, tale Marguerite Chopin, che giace in un cimitero nelle vicinanze, e che deve essere trafitta al cuore con un paletto. Con la morte della creatura e del diabolico dottore, la maledizione è finalmente terminata.
Vampyr, insieme a Nosferatu e Dracula, ha contribuito in maniera determinante alla costruzione del mito cinematografico e culturale del vampiro, ma al contempo si distanzia tanto dal modello americano precedente di un anno, quanto dal modello tedesco di un decennio prima, senza subirne le influenze, bensì definendo uno stile, una narrazione e un contenuto tutti suoi. Il film Universal di Browning, forse il primo adattamento ufficiale del Dracula di Bram Stoker, è il più “commerciale” (si passi il termine) dei tre, frutto di un meccanismo produttivo hollywoodiano che ha ormai adottato definitivamente il sonoro, con una regia che predilige un andamento estetico e diegetico di matrice più classica.
Se il classico di Murnau è tra i capisaldi dell’espressionismo, cioè quel tipo di arte volto all’esasperazione quasi grottesca dei volti e delle scenografie (vedasi le arcate ogivali che richiamano il volto deformato del vampiro), l’opera di Dreyer va persino in senso opposto, tanto che non sarebbe azzardato definirlo come un film impressionista. Un film fatto cioè di impressioni, immagini che compaiono come in un sogno, accostamenti arditi di inquadrature tanto diverse tra loro (non siamo distanti dal contemporaneo surrealismo di Buñuel), pochi suoni, pochissime parole, tutto immerso in un’atmosfera onirica, rarefatta, nebbiosa come il paesaggio dove è ambientata la vicenda. Vampyr è sicuramente un horror, un film di genere fantastico, in grado di angosciare come pochi altri in certe sequenze, e di suscitare impressioni di orrore, morte, spavento ancora oggi insuperate, grazie a una tecnica cinematografica sopraffina; ma al contempo si distacca nettamente sia dai modelli hollywoodiani (i “Monsters” della Universal, fra cui va citato un altro imprescindibile film coevo come il Frankenstein di James Whale), sia dall’espressionismo di Murnau.
L’opera di Dreyer è un oggetto diafano, alieno, fatto di impressioni, costruito come un grande sogno (o meglio, incubo) dove la realtà sprofonda continuamente nel mondo onirico, il reale si confonde col soprannaturale, ma è anche una lezione di cinema che ancora oggi continua a essere oggetto di studio, talmente è ricca di tecnica e artifici narrativi di alta scuola. Se i film di Murnau e Browning erano costruiti a partire dalla figura del vampiro – il volto terrificante del misterioso Max Schreck e gli sguardi illuminati a contrasto di Bela Lugosi sono entrati di prepotenza nell’immaginario cinematografico collettivo – in Vampyr, paradossalmente, il vampiro si vede poco, e non è attorno alla sua iconografia che si costruisce il corpo del film, a differenza delle altre due opere.
Dreyer costruisce la storia con una sorta di tableaux vivants, situazioni paratattiche e giustapposte dove la consecutio logica e temporale è soltanto accennata, per dare vita a sensazioni eteree, funeree e sepolcrali – in un certo senso, vedere Vampyr è un po’ come leggere una macabra poesia, dove i rapporti di causa/effetto non seguono la logica comune. Certo, un andamento narrativo c’è – non siamo all’anti-narrazione estrema del primo Buñuel, col quale comunque si è detto che vi sono punti in comune – ma la diegesi sembra affidata soprattutto al fluire degli incubi, al magma dell’inconscio, a un precipitare da un mondo all’altro proprio come accade nei sogni, il che fornisce al film un coté altamente evocativo e affascinante.
A differenza degli altri classici, e in anticipo sui tempi, il vampiro qua è una donna (come tipico della narrazione di Le Fanu), che ha le fattezze avvizzite e funeree della vecchia Marguerite Chopin – interpretata da un’attrice non professionista, come la maggior parte dei protagonisti del film, scelti in base ai volti grotteschi, peculiari e spaventosi – la quale Marguerite compare nel giardino a vampirizzare la ragazza, come da tradizione. E che, ancora come insegna la tradizione (seguita però solo in parte da Dreyer), può essere uccisa soltanto da un paletto conficcato nel cuore, con un effetto ottico che trasforma le sue fattezze femminili in uno scheletro.
Così come Dracula aveva il folle e fedele Renfield, anche la nostra vampira ha un servo, il diabolico e inquietante dottore, baffuto e occhialuto, che compare più volte come seminatore di morte, e destinato a una fine catartica e crudele, soffocato da una montagna di farina in un mulino abbandonato. Vampyr è un film fatto di incubi e ombre, e non a caso sono le ombre – cioè le anime dannate – a indicare ad Allan la strada che lo condurrà verso l’incubo, in una fra le sequenze più icastiche del film, con le ombre che danzano a ritmo di musica nel vecchio edificio dismesso.
Un contributo fondamentale alla costruzione di questa atmosfera davvero senza eguali è fornito dalla magistrale fotografia di Rudolph Maté (futuro regista di vari film di genere negli States), che dipinge un B/N differente (persino opposto) a quello contrastato ed espressionista di Murnau, e che al contrario è diafano, ombreggiato, lattiginoso, pastellato, come se fosse immerso in quella coltre di nebbia che permea tutta la storia, tutto fatto di sfumature fra luci e ombre. Come già aveva fatto con La passione di Giovanna D’Arco, Dreyer inquadra spesso i protagonisti con imponenti ed espressivi primi piani, dallo spaesato protagonista al diabolico vampiro, fino al castellano e alle figlie, riprese di frequente in espressioni di morte e martirio non dissimili da come aveva ritratto la Pulzella d’Orléans nel film precedente.
La regia di Dreyer è avanguardista e sperimentale, e si lancia in voli pindarici che solo un regista dotato di una conoscenza scientifica del cinema può permettersi, e che disorientano volutamente lo spettatore in questo universo onirico: realizza falsi raccordi di montaggio (in anticipo di quarant’anni su Godard e la Nouvelle Vague), inserisce inquadrature (spesso in piano-sequenza) che sembrano soggettive e si trasformano in oggettive, utilizza movimenti di macchina arditi, e dà vita a immagini apparentemente prive di logica, come l’ombra che scava la terra al contrario – ma in Vampyr non c’è niente di logico, e anche le scenografie realistiche (ricordiamo che sono prese dal vero) si trasformano in qualcosa di irreale.
Si diceva che Vampyr, un’autentica pietra miliare del cinema (non solo horror), è anche un film di confine nella storia della cinematografia mondiale: si veniva dall’epoca aurea del cinema muto, che aveva prodotto tanti capolavori e film seminali, e nel quale lo stesso Dreyer si era più volte cimentato. Ora – spinto forse anche dall’epoca di rinnovamento, col sonoro che prendeva sempre più piede – il regista danese decise di sperimentare qualcosa di nuovo: perché Vampyr è anche, e forse innanzitutto, un film sperimentale, tanto nel linguaggio filmico quanto nella narrazione. Con l’adozione del sonoro entrano dunque in scena suoni e dialoghi, ma in questo senso il nostro film è minimalista, limitando estremamente sia gli scambi di battute che gli effetti sonori. Anche il suono vive di impressioni estemporanee: i rintocchi della campanella mossa dall’iconico uomo con la falce, il battito delle dita sui vetri, lo sparo che uccide il padrone del castello, lo sbattere delle porte entrano nella narrazione in modo quasi impercettibile eppure così suggestivo – perché Vampyr è un horror costruito interamente sulle suggestioni – insieme ai dialoghi appena accennati e rarefatti.
Così come è rarefatta e sospesa tutta l’atmosfera in cui ci immergiamo insieme al protagonista, e ci troviamo a vivere con lui situazioni angoscianti e spaventose, dove lo spavento è introdotto senza l’ausilio di effetti speciali ma esclusivamente con le tecniche che l’arte cinematografica mette a disposizione. Come nel cinema muto, la musica (realizzata da Wolfang Zeller) ha un’importanza primaria, tanto da essere presente praticamente in tutte le inquadrature, così grave, opprimente e tetra da avvolgerci come in un manto nero. E dal cinema muto è desunto anche l’utilizzo ricorrente di didascalie che spiegano quanto sta accadendo, talvolta extra-diegetiche (veri e propri pannelli narrativi), talvolta diegetiche, attraverso le pagine del libro che leggiamo insieme al protagonista. Vampyr vive soprattutto di scene e immagini iconiche: l’uomo con la falce in riva al fiume (una sorta di Caronte, il traghettatore infernale), la danza delle ombre (le anime dannate che accompagnano il vampiro e il suo servitore), volti spaventosi che si aggirano ovunque, la vampira chinata sul corpo della ragazza come l’Incubo di Füssli, lo scheletro che regge una boccetta di veleno, fino alla lunga e leggendaria sequenza in cui Allan Gray vede – o crede di vedere – la propria sepoltura, come nel racconto sopra citato (La sepoltura prematura) di Edgar Allan Poe.
La scena è girata quasi interamente in soggettiva dal basso verso l’alto, vista dalla prospettiva del ragazzo, che dal vetro della bara può scorgere i volti che lo circondano e il tragitto verso il cimitero, con l’aggiunta di alcune oggettive sul suo volto pietrificato. Un momento di pura avanguardia cinematografica, una sequenza terrificante e ancora oggi insuperata, che rappresenta un incubo di Mister Gray: un’immagine dunque simbolica del film, dove reale e soprannaturale, realtà e sogno, si confondono (e ci confondono) continuamente.