Velluto blu è un’opera soave e voluttuosa, perversa e dolcissima, una no man’s land in cui la tragedia si stempera in ironia allucinata; armonia di opposti che, come dichiarato da David Lynch, sono germinati da frammenti concettuali sparsi: una sensazione, un orecchio abbandonato in mezzo al prato, un brano di Bobby Vinton.
Il film che apre a Lynch la porta della creatività assoluta dopo la dittatura produttiva di Dune, è prima di tutto un racconto americano sui generis, che trattiene il compiacimento dell’american dream all’interno della staccionata, dentro i vialetti delle villette a schiera tutte uguali, arginato in un gioco di forme che da semplice virtuosismo si incarna nella poetica visionaria di un perturbante dell’ordinario; sfila, infatti, un’americanità oggettivizzata sulla scena - i cartelli stradali di Lumbert e Meadow Street, le staccionate che racchiudono fiori rossi e gialli, i prati curati, il serafico american way of life della middle class, i distintivi dei poliziotti – quando veniamo improvvisamente catapultati in un sottobosco simbolico, specchio distorto e capovolto di una provincia che cova fiamme nel profondo.
Dalle immagini riconoscibili e rassicuranti incastonate in una cornice idillica di vita quotidiana, si apre lo squarcio onirico in cui la cittadina inizia lentamente a sfrigolare in una vera e propria teatralizzazione e in una commedia dell’assurdo quando il tono beffardo si colora del grottesco più enfatizzato. Rifulgono, pastellati e accesi, gli sfolgoranti anni Cinquanta con la loro sovrabbondanza di luci, forme e colori e si alternano agli squarci iconici provenienti dagli anni Ottanta – Il poster di Montgomery Clift che Sandy ha in camera – a dettagli presi in prestito dagli anni Venti e Trenta, che gravitano intorno al mondo deviato di Dorothy Vallens, Isabella Rossellini che intona Blue Velvet allo Slow Club. Il dentro e il fuori, l’azione e il suo deragliamento verso l’allucinazione, sottolineata dal sonoro cupo di Alan Splet e incarnata nelle fattezze diaboliche di Frank Booth (Dennis Hopper), producono lo straniamento lynchano e lo slittamento della realtà in una dimensione onirica, al di là della tranquilla vita di provincia.
Con Velluto blu, Lynch inizia a creare una mitologia visionaria che annienta il costrutto logico della storia, esasperata da ossessive ripetizioni acustiche, crepitii e ruggiti, e sovralimentata dalle canzoni di Angelo Baladamenti che ricoprono la dimensione ossessiva e ironica del sogno della patina illusoria proveniente da un tempo perduto: basti pensare a In Dreams, eseguita in playback dallo scagnozzo del villain in una sequenza felliniana di grande effetto. Cinema di dettaglio e d’atmosfera, Velluto Blu astrae e decompone la materia narrativa, saltellando dal ripetitivo e stucchevole sogno americano all’incubo di provincia, uniche coordinate per un’esplorazione nei recessi dei Mysteries of love (and death) della cittadina del legno, prima che Twin Peaks ne raccolga l’eredità oscura.