Siamo alla fine di uno dei decenni più paranoici del secolo scorso, se non il principale sicuramente quello che ha maggiormente alimentato la cinematografia di una nazione – quella americana – mai come allora così smarrita, immalinconita, smascherata. Sembrerebbe un ritratto fin troppo drammatico ma Il cavaliere elettrico parla proprio di questo: un popolo che fa i conti coi suoi miti, col passato iconograficamente comunque sempre affascinante e col presente aggressivo cannibalizzato dai bisogni del capitale.

E se pare essere una lettura del declinante decennio che presagisce il cinico rampantismo degli anni ottanta imminenti è anche perché dietro la macchina da presa c’è un regista, il grande Sydney Pollack, infallibile nello scandagliare il lato oscuro del sogno americano (Non si uccidono così anche i cavalli?, Come eravamo, I tre giorni del Condor) e davanti al suo obiettivo due volti simbolo della New Hollywood.

Omaggiati dalla Mostra coi Leoni d’oro alla carriera, Robert Redford e Jane Fonda abitano il film – proiettato in loro onore, terza collaborazione dopo lo spietato La caccia e il classico A piedi nudi nel parco: ma a trentotto anni di distanza li vedremo qui a Venezia ne Le nostre anime di notte – con la lucida consapevolezza del loro statuto divistico. Ma mentre lei chiude la propria stagione di gloria professionale con un ruolo a metà tra la donna in carriera e la romantica eroina per caso, una sorta di Barbara Stanwyck meno spigolosa, è lui che infila quella che è forse la sua interpretazione più strepitosa.

Ponendosi nel momento in cui il cinema americano ripensa criticamente la figura del cowboy estirpandola dal genere per cercare il western ovunque, con la coscienza che esso sia in tutto e per tutto il genere americano per eccellenza e il solo in grado di misurarsi con le prospettive della nazione più profonda (L’ultimo buscadero, Arriva un cavaliere libero e selvaggio), Redford gioca con la sua inequivocabile immagine kennedyana – come ne Il candidato e per ribaltamento nel citato Come eravamo – sin dai memorabili titoli di testa, in cui le sue imprese nei rodei sono raccontate da foto che lo ritraggono biondissimo anche in bianco e nero, sorridente e vincente. Quando passa dallo show-sport alla pubblicità dei cereali, qualcuno decide di appiccicargli un paio di baffi: la persona diventa allora il personaggio replicato dalla grande distribuzione, vendendo la credibilità agonistica sull’altare del commercio, e i luminosi caroselli pubblicitari nelle più disparate manifestazioni esprimono la decadenza del fenomeno da baraccone.

Ma appena gli capita l’occasione di riscatto (salvare un cavallo che vale 12 milioni di dollari dagli steroidi e dallo sfruttamento) ecco che il cowboy torna ad essere l’eroe popolare di cui ha bisogno il Grande Paese rurale, diffidente coi ricchi che non faticano ma non coi fuorilegge in regola con il cuore. Ed ecco la storia che la reporter Fonda deve raccontare: non la fuga criminale di un eccentrico ex divo ma la riscoperta della propria dimenticata carta geografica dei luoghi che costruiscono un’identità, la fuga – questa sì – dalla cattività a cui ci costringono le inevitabili regole del mondo contemporaneo. Ma, s’è detto, sono gli anni settanta: e tutto ciò può essere solo una parentesi tra un viaggio in aereo e un autostop fallito.