A cent’anni dalla nascita e venti dalla morte, Venezia Classici omaggia Giuseppe De Santis, regista grande quanto i non molti film che ha girato e forse soprattutto come i troppi che non ebbe la possibilità di realizzare (citiamo almeno Noi che facciamo crescere il grano, capitolo conclusivo della quadrilogia della terra comprendente i primi tre lavori, e Pettotondo, su misura per Claudia Cardinale in versione contadina). Della sua opera si ricorda sempre il longseller Riso amaro anche grazie all’iconica mondina Silvana Mangano ma, benché il tempo si stia rivelando più che corretto nell’evidenziare il valore del capolavoro Roma, ore 11, De Santis resta a tutt’oggi autore da riscoprire perfino nei risultati meno felici, non ultimo il terminale, disincantato commiato involontario Un apprezzato professionista di sicuro avvenire, il cui insuccesso contribuì a radicalizzare l’ostracismo nei suoi confronti.

L’occasione dataci dal restauro di Non c’è pace tra gli ulivi permette di tornare su un film magmatico e straordinario per audacia, addirittura estremo per la programmatica evidenza con la quale si espongono il teorema e le geometrie che sottendono il progetto. Peraltro, nonostante lo scrisse con Gianni Puccini, Carlo Lizzani e Libero De Libero, è istruttivo sapere che il regista dovette subire il fuoco amico della critica organica al partito in cui tutti gli autori militavano. Non è certo la sede per analizzare le recensioni dell’epoca ma sia sufficiente dire che la questione non era narrativa: d’altronde, quale miglior parabola politica di questa rivolta contadina, capeggiata dal compagno Raf Vallone, contro un padrone tiranno e crudele, impersonato dal villain per eccellenza del dopoguerra, il mastodontico Folco Lulli, la faccia trucida e il fisico possente del fascista di Fuga in Francia, dello scagnozzo in Senza pietà, dell’assassino di Maddalena ma già partigiano nella vit reale.

Il problema, semmai, era di forma: ciò che oggi ci pare assai coraggioso in termini di messinscena poteva forse allora turbare i devoti al moloch neorealista. De Santis, infatti, sceglie un approccio di grande potenza espressiva commettendo il dirompente peccato di far guardare in macchina gli attori, componendo il quadro secondo precise coordinate visive tra i movimenti diagonali delle folle e profondità di campo hollywoodiane reinterpretate dalle cromature limpide di Piero Portalupi, creando un pressoché unico esempio di western sociale brechtiano-ciociaro (siamo a Fondi, patria del cineasta) accompagnato all’inizio e nell’epilogo dalla sua stessa voice over che si incarica di spiegare i moventi dell’operazione e il coinvolgimento che lo ha spinto a raccontare l’apologo.

Un film spettacolare, reso epico dalle notte perentorie di Goffredo Petrassi, abitato dalla presenza di due entità mai apparse prima sugli schermi: da una parte il coro genuino ma non ingenuo di pastori locali come neorealismo impone; dall’altra la fulgida prima apparizione di Lucia Bosè qualche mese prima di Cronaca di un amore, che esplode in una erotica esibizione di saltarello e prepara l’incipiente divismo a cui lo stesso De Santis diede il proprio contributo (pensiamo al coro femminile di Roma ma pure all’incompreso Un marito per Anna Zaccheo).