Per “film della vita” si intende l’apice di un percorso personale sublimato nella creazione artistica, l’obiettivo a cui tende tutta la carriera di un cineasta, il lavoro per cui si sarà ricordati a futura memoria. Elem Klimov lo raggiunse al settimo opus e forse non immaginava che sarebbe stato anche l’ultimo. Col senno di poi, Va’ e vedi non è un testamento; ma oggi assume i connotati della testimonianza estrema che meglio caratterizza il pensiero e la poetica di un regista un po’ sfortunato, prima vittima della censura, poi organico alla Perestrojka e infine di nuovo emarginato (è la Russia, bellezza).

A rivederlo oggi, nell’ambito di Venezia Classici, restaurato dalla Mossfilm, ci si rende conto di quanto il suo film più celebre e celebrato abbia inciso nel racconto della guerra al cinema. Non solo Klimov costruisce un’opera-mondo in cui collimano la retorica della guerra in noi (l’inizio coi bambini) e l’affresco collettivo (le masse ribelli), ma si preoccupa anche di presentarla con strumenti nuovi in grado di trasmettere un realismo ossessivo se non ossessionato, a partire dalla steady-cam che incede inesorabile.

Trattando la bestiale occupazione nazista in Bielorussia, Klimov si ispira ai racconti di Aleksandr Adamovič e, nei voluti limiti di un’inquadratura soffocante, sceglie gli occhi progressivamente sempre più allucinati del piccolo protagonista per entrare dentro l’orrore, trovandolo tanto nel neonato gettato nel capanno infuocato quanto nell’occhio morente della vacca, servendosi ora di un iperrealismo spinto alla più insopportabile evidenza del male, ora di punte di imprevisto surrealismo un attimo dopo ricollocate nel terrore della realtà.

Come difficilmente era capitato prima, va oltre la banalità del male per far scontrare lo spettatore con il male stesso: la crudeltà dei servi fieri di compiacere gli ordini del capo, la vigliaccheria del non saper morire con dignità e soprattutto la condanna del protagonista ("nasce tutto dai bambini" dice un nazista per motivare la loro uccisione) a perpetuare il male stesso nella palude della vita, alla guerra come unica soluzione, alla morte anche laddove soltanto simbolica come nell’impressionante finale che assembla finzione e repertorio in un montaggio devastante.