Soltanto un maestro assoluto del cinema come Billy Wilder poteva concedersi il lusso di prendere un suo capolavoro, dirigerne una sorta di remake, e creare un film perfetto come il precedente. Quasi trent’anni dopo Viale del tramonto (1950), Wilder realizzò infatti Fedora (1978), con una curiosa produzione lontana dagli USA e affidata a capitali franco-tedeschi, e che sarà il suo penultimo film prima della commedia Buddy Buddy: Fedora è un’opera che, pur non essendo celeberrima come la precedente né così importante per la storia del cinema, rappresenta senza ombra di dubbio uno dei più grandi omaggi al mondo della Settima Arte (affascinante ma illusorio e spietato). Il punto di partenza, in realtà, viene dal romanzo omonimo dell’attore e scrittore Tom Tryon, ma Wilder – che oltre alla regia firma la sceneggiatura – lo modella a proprio piacimento, costruendo un dramma dove i riferimenti a Sunset Boulevard sono molteplici, inseriti però in una vicenda differente, più complessa, e che in certi momenti sfocia nel thriller psicologico.

La storia inizia a Parigi col suicidio di Fedora (Marthe Keller), una famosa attrice che ormai da molti anni si era ritirata dalle scene. Nella sfarzosa camera ardente si recano centinaia di persone, fra cui il produttore hollywoodiano Barry “Dutch” Detweiler (William Holden). Attraverso un lungo flashback, l’uomo racconta di quando, alcune settimane prima, si era recato sull’isola greca di Corfù, dove Fedora viveva nella lussuosa villa di una contessa polacca invalida. Il produttore voleva proporre all’attrice di tornare sulle scene con una nuova trasposizione cinematografica di Anna Karenina, ma aveva incontrato un ambiente ostile: la donna era praticamente reclusa nella villa, dove soggiornava insieme alla padrona di casa, un medico e una governante.

Dopo il trasferimento di Fedora a Parigi, Detweiler apprende la sua morte. Torniamo così al presente, quando Barry incontra di nuovo la contessa e il suo entourage, scoprendo una verità sconcertante: la donna morta non è Fedora, ma la figlia segreta Antonia, mentre la vera Fedora ha assunto l’identità della contessa dopo un incidente che l’ha resa sfigurata e paralizzata; un incidente in seguito al quale ha costretto la figlia a recitare al suo posto, grazie a un’incredibile somiglianza e a un trucco adeguato. In nome del vecchio amore che aveva legato il produttore all’attrice, egli decide di mantenere il segreto.

Numerose sono le somiglianze con Viale del tramonto, di cui Fedora costituisce una sorta di riproposizione aggiornata coi tempi (in primis, al B/N del modello fa posto una fotografia dai colori sfavillanti), ma invariata nella sostanza: un’attrice ritiratasi dalle scene ma che non vuole arrendersi al passare degli anni (Fedora è quasi un’erede di Norma Desmond), uno sguardo disincantato nei confronti del cinema, una rappresentazione al vetriolo del divismo (di cui vediamo gli aspetti più meschini), una vicenda meta-cinematografica che ricorda non solo Sunset Boulevard ma anche quell’altro gioiello di Robert Aldrich che è Quando muore una stella.

Fin dalla scelta dell’attore protagonista – un William Holden invecchiato ma non imbolsito, e sempre un gran divo dello schermo – Billy Wilder si pone in una dimensione di continuità col suo precedente capolavoro. Anche la tecnica narrativa è simile, visto che la maggior parte di Fedora è narrata in flashback (una tecnica molto amata da Wilder, pensiamo anche a La fiamma del peccato), secondo il punto di vista di Detweiler o degli altri personaggi (con un ascendente illustre come Quarto potere di Orson Welles), il tutto costantemente sottolineato da una colonna sonora drammatica e altisonante. Viale del tramonto iniziava col cadavere galleggiante in piscina del personaggio di Holden, al quale, che con un curioso espediente narrativo, era affidata la narrazione di tutta la vicenda: anche Fedora inizia con una morte – la ragazza che si getta sotto un treno, proprio come il personaggio di Anna Karenina – dopodiché la veglia funebre è l’occasione per Dutch di ripercorrere il loro incontro sull’isola di Corfù.

Il film possiede una struttura narrativa a incastro più complessa, con un utilizzo particolarmente creativo del montaggio: nel flashback narrato da Holden è inserito un ulteriore flashback che narra l’incontro di molti anni prima fra l’attrice (ancora Marthe Keller, che interpreta così sia la giovane Fedora che la figlia Antonia) e il produttore, che all’epoca era un aiuto-regista (Stephen Collins, cioè Barry da giovane). Con il racconto dei giorni a Corfù, assistiamo a un voluto contrasto tra paesaggi splendidi – vedasi la villa affacciata sul mare – valorizzati da una fotografia particolarmente luminosa, e l’atmosfera mortifera che regna all’interno della sontuosa dimora: una prigione dorata dietro cui sembrano celarsi segreti e misteri come in un giallo – del resto, Wilder aveva diretto capolavori del genere come La fiamma del peccato e Testimone d’accusa.

La presunta Fedora (una Keller sempre celata da cappello, foulard e occhiali neri) è soggetta a crisi nervose di cui solo più tardi capiremo il motivo, e coloro che la circondano – la contessa paralitica (Hildegard Knef), il medico alcolizzato (José Ferrer), la governante e il custode/autista – le impediscono ogni contatto col mondo esterno; anche la visita di Detweiler per proporle il nuovo copione si risolve in un insuccesso e in una crisi di nervi da parte della giovane. La sceneggiatura di Fedora si muove in continuazione fra passato e presente, per cui durante la veglia funebre tocca ai personaggi raccontare tutta la verità, con i vari flashback introdotti dalla sottigliezza registica della cinepresa che si muove e zooma: il dramma assume sempre di più una connotazione noir, con un meccanismo per certi versi hitchcockiano – la giovane Antonia che viene modellata per fare rivivere Fedora non può non far pensare a La donna che visse due volte.

Fedora è un film costantemente in bilico fra un atto d’amore verso il cinema e una messa alla berlina dei suoi aspetti più meschini, come se il mondo della Settima Arte fosse una creatura a due facce, l’una inscindibile dall’altra. Se Robert Aldrich denunciava soprattutto lo spietato sistema produttivo, nel cinema di Billy Wilder è innanzitutto il concetto di divismo ad essere messo in scena, con tutte le ambivalenze del caso: Fedora (quella vera) è una star che vive con il culto dell’immagine e della celebrità, incapace di sopportare le sue menomazioni, ben conscia di come il fascino delle dive sia illusorio (all’esterno dolcezza, all’interno cemento, dice pressappoco in una battuta), e di come Hollywood sia una fabbrica dei sogni che possono trasformarsi in incubi. La sua ossessione per l’eterna giovinezza è stata la causa dell’incidente che le ha deturpato il viso – un’operazione di chirurgia estetica andata male – e che l’ha messa sulla sedia a rotelle: dopo un periodo di inattività, il fascino del successo l’ha portata a impadronirsi della vita di sua figlia, costringendola a interpretare il suo personaggio e a rinunciare così alla propria vita.

Il film, attraverso i due protagonisti, è intriso di una forte amarezza nostalgica per il periodo d’oro della cinematografia, considerato ormai finito: un mondo del cinema che rivive attraverso alcune scene meta-cinematografiche – la Keller nuda in piscina mentre interpreta una ninfa sul set di un peplum, poi il valzer gattopardesco dove ancora la Keller danza sul set con Michael York nei panni di sé stesso – o con la protagonista attorniata da giornalisti e fotografi. Perché in Fedora Billy Wilder inserisce numerose citazioni di star del cinema (Marylin Monroe, Joan Crawford, Laurence Olivier, Federico Fellini, e altri ancora), che culminano con la presenza di Henry Fonda nel ruolo di sé stesso come presidente dell’Academy, il quale consegna l’Oscar ad Antonia/Fedora. Le loro abitazioni e persino la sfarzosa veglia funebre sono una sorta di mausoleo alla sua carriera, e la scena in cui madre e figlia guardano i suoi film in casa, con un proiettore, non è solo una citazione da Viale del tramonto, ma un’immagine intrisa di nostalgia per un tempo perduto e che non potrà più tornare.