Uno dei personaggi più interessanti di Vivere di Francesca Archibugi è un avvocato dell’alta borghesia romana: un po’ erede dell’aristocrazia nera papalina, un po’ simpatizzante con i post fascisti. Sua figlia, frivola e superba (Valentina Cervi), ha avuto un figlio, ora adolescente, da un giornalista immaturo e fedifrago che per campare produce fake news (Adriano Giannini) e ora sposato con un’insegnante di danza (Micaela Ramazzotti). Settantenne oscuro, che riceve politici collusi nel cuore della notte e paga loschi figuri per assicurarsi piaceri proibiti, lo interpreta Enrico Montesano, uno che circa quarant’anni fa ha retto per qualche lustro il botteghino. Scelta di casting acutissima, perché Montesano è effettivamente un uomo nell’ombra nel cinema italiano.

A differenza di altri attori della sua generazione, non ha goduto né di rivalutazioni né di particolari attenzioni critiche. Nelle cinque pose che gli concede, Archibugi lo pone al centro di una doppia operazione: depotenzia il suo corpo comico e mette la sordina all’istrionismo congenito per tratteggiare la parte più inquietante della commedia, un “cattivo” cinico e sprezzante; e, al contempo, mette in evidenza un grande problema del cinema medio, quello per intenderci non legato alle reinvenzioni di autori come Paolo Sorrentino: la difficoltà di rappresentare il potere.

Pensiamo a Il nome del figlio, sempre di Archibugi: il potente (per la famiglia e la società) è un morto, il patriarca ebreo di una famiglia di sinistra, le tracce della cui incidenza si riscontrano nei figli complessati. In Gli sdraiati c’è un altro intellettuale, carismatico e seguito giornalista televisivo, incapace di comunicare col figlio. Il potere lo intervista in trasmissione, probabilmente senza capirlo davvero, ponendosi quale interprete-complice. Nell’ottimo Romanzo famigliare, serie della regista per Raiuno, il padre raffigura un potere completo (industriale, socio-politico, privato) in conflitto, per l’innata tendenza alla soverchieria, con personaggi difettosi, emotivamente fragili, che seguono le ragioni del cuore.

Per accedere al potere, Archibugi ha ancora una volta bisogno della famiglia, il cuore del suo cinema. Montesano, padre oscuro, sembra esserne la rappresentazione ideale. Tuttavia, mai come in Vivere, film romano in tutto e per tutto, quella che in apparenza è la storia di una famiglia sfugge al suo intento reale, nascondendo l’incapacità di raccontarlo, il potere. Difficoltà che si fa plastica quando inquadra il quartiere Axa, dove abita la famiglia di Ramazzotti e Giannini: una periferia chiusa e orizzontale sulla quale incombe il potere edilizio dunque sociale, succube dei non lontani palazzi che svettano verso il cielo. Il cielo è dei potenti, recitava il titolo di un romanzo (romano) di qualche anno fa: della villa di Montesano, infatti, non vediamo mai l’apice, percependone invece gli interni inesauribili su più piani, stanze piene di feticci di un ceto dedito alla rappresentanza di sé.

Scegliendo la rappresentanza (sia del potere sia del ceto medio) anziché la rappresentazione, Vivere non riesce a trovare una cifra se non nella prospettiva di un racconto mancato e manicheo. Quasi per eludere il problema, si dedica al ménage di una coppia in sfacelo, con una donna stanca in apnea nel traffico della capitale e un uomo-bambino incapace di empatia. Ci mette dentro una bambina cagionevole, un ragazzino cocainomane, un medico premuroso, un vicino di casa solo al mondo. Individua un filtro nello sguardo della studentessa irlandese ospitata dai protagonisti per un anno. In origine, Vivere si sarebbe dovuto chiamare Un anno in Italia: una rinuncia che sembra una dichiarazione d’impotenza.