C’è un momento, uno stacco improvviso nel montaggio e una frazione di tempo minima e disturbante, pur nella sua durata esigua, in L’infanzia di un capo, in cui è come se il giovane Prescott e la sua tata venissero proiettati dall’altro lato dello schermo. Il campo si allarga: un freddissimo totale in cui la prospettiva è quella di un quadro di Friedrich, con l’ambiente esterno preponderante ed egemone rispetto alle due figure umane, rese ancora più impercettibili e piccole dall’uso di un grandangolo. Uno stratagemma che ci fa sentire tutto il peso dell’osservazione e del pedinamento da parte di qualcuno o qualcosa, una terza persona o una terza sostanza; la madre o il padre, l’autorità, oppure lo spettro di un’ecatombe imminente, il Nazismo, un male ancora in germe.

A questo punto della storia, il giovanissimo Brady Corbet – che abbiamo visto recitare per Lars von Trier e Michael Haneke - delinea a rende maggiormente chiaro un legame, quello tra crisi intima e cosmica, dissoluzione interiore ed esteriore che non possono non intersecarsi, dal suo punto di vista, diventando un tutt’uno, e si tratta di un nesso facilmente riscontrabile anche nel suo ultimo lavoro, Vox Lux, in concorso durante quest’edizione del Festival di Venezia. Se, nel suo esordio alla regia, tutte le emozioni e la decadenza del XX secolo erano incanalate nella vita del piccolo Prescott, che ne era la contrazione viva e pulsante, sarà, d’altro canto, una giovane popstar di nome Celeste la testimone di eventi cruciali e modelli culturali che hanno plasmato i primi anni del XXI secolo, seguendone l’ascesa dalle spoglie di un’immane tragedia nazionale.

Scandito in tre atti, Vox Lux è un lavoro straniante, complesso, conturbante a livello visivo e di concatenazione di spazi, tempi e trame che si rifrangono, confermando l’eccezionalità e, soprattutto, le cifre autoriali e stilistiche di un cineasta al suo solo secondo lungometraggio.  Lungo tutto il corso del film, si respira aria di inquietudine e ansia, mentre i ritmi frenetici dei nostri giorni invadono inesorabili il secondo atto. Corbet fonde dramma psicologico e universale, in un vortice irrefrenabile e potentissimo di immagini “spettacolari” - memorabile la sequenza finale, talmente patinata da risultare poi vuota, vacua e, non a caso, l’epilogo sarebbe stato prossimo - dove a intrecciarsi sono anche i meccanismi della violenza, le sue cause e i suoi effetti, insinuando, in questo modo, una riflessione sull’essenza stessa della cultura pop  oggigiorno: presso un litorale croato, dei terroristi sparano ai bagnati, coprendosi il volto con una delle maschere utilizzate in un videoclip di Celeste.

Per dimostrare cosa? Probabilmente il bisogno di ridefinirsi, individualizzarsi in relazione a qualcosa di irripetibile, che farà parlare, in una società che ci vuole sempre più conformi a dei modelli, diventando gli unici protagonisti; in questo modo, attraverso gli occhi testimoni - anche se, più che di testimonianza, sarebbe bene parlare di un legame metafisico, quasi spirituale tra i due livelli, singolare e globale - di Celeste, attraverso una danza macabra di sequenze e rappresentazioni, Corbet ci parla del XXI secolo nei termini di una società al tramonto, sempre più misera, devota esclusivamente alla contemplazione dei propri “io” e marchiata da un’estrema vacuità di fondo.