In un saggio del 2003, Nicholas Royle spiegava la nozione del “perturbante” freudiano (in tedesco unheimlich) scrivendo che la sensazione può consistere in qualcosa di raccapricciante o terribile, ma anche in qualcosa di «stranamente bellissimo e di “troppo bello per essere vero”», qualcosa che ci ricorda qualcos’altro «come un dejà vu».
Il perturbante, aggiungeva Royle, può essere contemporaneamente bello e spaventoso, e arriva nelle incertezze del silenzio, della solitudine e dell’oscurità. Coniato da Freud nel 1919, il termine esprime il contrario di heimlich, che indica qualcosa di familiare, noto, sicuro: un-heimlich è dunque ciò che è sinistro, nascosto, sconosciuto, che provoca turbamento e angoscia.
Un’interpretazione come quella di Royle, per quanto in apparenza fumosa, permette in realtà di allargare il concetto di unheimlich a storie che non siano di per sé grottesche, ma che ruotano intorno a qualcosa di contemporaneamente essenziale e nascosto. E, per quanto sia in apparenza ossimorico accostare Wes Anderson alla nozione freudiana di “perturbante”, è attorno a questo dualismo che si costruiscono i quattro cortometraggi girati per Netflix dal regista texano e tratti da quattro racconti di Roald Dahl: La meravigliosa storia di Henry Sugar, Il cigno, Il derattizzatore e Veleno.
Primo in ordine cronologico di uscita, La meravigliosa storia di Henry Sugar fornisce anche la chiave di lettura della quaterna di cortometraggi, mettendo lo spettatore davanti a un quadruplo mise en abyme in cui lo sguardo ha un ruolo fondamentale: l’autore Roald Dahl (Ralph Fiennes) racconta infatti di Henry Sugar (Benedict Cumberbatch), uomo disonesto ed egoista che incappa per caso nel resoconto del dottor Chatterjee (Dev Patel) circa un’intervista da lui svolta con Imdad Khan (Ben Kingsley), un uomo capace di vedere senza gli occhi. Il resoconto di Chatterjee comprende, tramite le parole di Khan, un’accurata descrizione dei metodi di meditazione che portano la capacità di vedere senza bisogno di vedere davvero: Sugar si rende subito conto delle potenzialità di un talento di questo tipo, che gli consentirebbe di barare senza difficoltà nel gioco d’azzardo.
Benché la storia in sé non sia perturbante – e abbia anzi contorni decisamente favolistici, morale compresa –, La meravigliosa storia di Henry Sugar introduce lo spettatore all’idea che gli sarà necessario guardare senza poter vedere, e apre la pista al successivo trittico di cortometraggi in cui il clou della narrazione non verrà mai mostrato. Ne Il cigno, due bulli giovanissimi tormentano e minacciano con un fucile un loro coetaneo, Peter Watson (Asa Jennings / Rupert Friend), fino a costringerlo a salire su un albero e lanciarsi nel vuoto. Ci viene detto che Peter Watson, a quel punto, spicca il volo e si libra nell’aria: ma il volo non viene messo in scena, e lo spettatore non saprà mai né come, né perché.
Ne Il derattizzatore, un disinfestatore arrivato in un villaggio per liberarlo dai topi cattura l’attenzione di un giornalista e di un benzinaio dimostrando un curioso rapporto fatto di antagonismo e sinergia con le stesse creature che dovrebbe sterminare. «Scommettiamo», chiede il disinfestatore al benzinaio affascinato mentre gli mostra un roditore vivo, «scommettiamo che posso uccidere il ratto senza usare le mani?». Il giornalista che riporta la storia (Richard Ayoade) avverte che sta per succedere qualcosa di molto spiacevole, qualcosa «di sinistro e crudele» a cui però, ormai, deve assistere; eppure, quando il derattizzatore scatta per attaccare il roditore, il narratore afferma che «Più di quello non volli vedere», negando anche a noi la possibilità di assistere all’esito concreto della macabra scommessa.
Veleno, infine, ruota intorno a un uomo (Benedict Cumberbatch) bloccato a letto a causa di un serpente molto velenoso che si è addormentato sulla sua pancia, sotto il pigiama e sotto il lenzuolo. Ogni minimo movimento o rumore improvviso potrebbe uccidere l’uomo, costretto a chiedere l’aiuto di un amico (Dev Patel) e di un dottore (Ben Kingsley) per sperare di sopravvivere. La minaccia del morso del serpente incombe per l’intera durata della narrazione, ma il rettile non viene mai mostrato.
In tutti e quattro i cortometraggi Anderson mette in scena l’irruzione di qualcosa che spazia dal peculiare al sinistro in un contesto familiare ai suoi personaggi, e che anche per un solo momento turba il quotidiano incedere delle loro vite. La minaccia di un evento che potrebbe essere bellissimo o terribile – il dono di poter vedere senza guardare, la facoltà di spiccare il volo, una scommessa impensabile e la possibilità di salvarsi da un morso mortale – incombe sui personaggi tanto quanto incombe su chi li guarda, mettendoli sullo stesso piano.
L’operazione, in realtà, è quasi antifreudiana: per Freud, la fiaba era esente dalla possibilità di “perturbare”, perché un evento è sinistro solo se irrompe in un mondo plausibile, in cui il fantastico non è la norma. Nascondendo il clou di ognuna delle sue storie, tuttavia, Anderson impedisce allo spettatore di trovare un’interpretazione degli eventi supportata da fatti che siano evidenti e concreti nell’economia della narrazione, condannandolo ad affidarsi a ciò che gli viene raccontato dai personaggi che lo fissano dal suo stesso schermo.
E forse, così facendo, il regista apre la strada a una nuova definizione di perturbante in una storia: non più qualcosa di inconsueto che squarcia il cielo di carta di un mondo normale, bensì un evento straordinario e sinistro che buca la quarta parete, riversando l’inquietudine e l’incredulità dei personaggi sullo spettatore.