West Side Story si esaurisce nella prima inquadratura. La macchina da presa, in plongée, corre lungo un quartiere ridotto ormai in rovine. Ruspe e palle da demolizione sono a riposo ma il frutto del loro lavoro è ben evidente. Nel West Side di Manhattan l’opera di gentrificazione che porterà alla costruzione del celebre Lincoln Center è ormai più che avviata. Dalle macerie sorgerà un nuovo benessere. Il passato è ormai demolito.

Il tempo ha primeggiato anche sullo spazio e solo la memoria può (deve?) ricoprire un ruolo da conservatrice di un patrimonio andato perduto. Steven Spielberg, all’età di settantacinque anni e a sessanta di distanza dal classico cinematografico di Wise e Robbins, prova a tematizzare proprio questo aspetto: l’importanza di salvaguardare il passato, di mantenere viva la fede in un cinema ormai sempre più invisibile poiché superato, debole, vecchio. Il suo West Side Story non è un remake, piuttosto è una nuova trasposizione del celebre libretto del 1957. Non cambiano le musiche (se non in minima parte), non cambiano i testi, eppure il film di Spielberg sembra avere poco di che spartire con l’originale del 1961. La firma del regista non solo è evidente, ma diventa anche la chiave di lettura principale per dialogare con questa pellicola.

West Side Story è un nuovo, fondamentale, capitolo nella sterminata filmografia di uno dei Maestri della cinematografia mondiale, un concentrato di intuizioni, rimandi, omaggi non tanto verso la tradizione (che chiaramente comunque sono presenti) ma rivolti a una carriera, quella di Spielberg stesso, che sembra sempre più prossima a una conclusione. Forse mai come in questo film, il regista di Cincinnati si identifica con la sua macchina da presa divenendo quindi il vero protagonista del racconto. Figlio dell’irripetibile stagione della New Hollywood, Spielberg ha contribuito a scolpire l’immaginario cinematografico degli ultimi cinquant’anni senza avere il timore di portare in scena i dubbi e le perplessità legate alla deriva che l’industria filmica sta assumendo da qualche tempo a questa parte.

West Side Story gioca quindi un doppio ruolo teorico: da un lato è la palla demolitrice che si propone di “sostituire” il classico del ‘61 con una versione più ritmata, dinamica, contemporanea nella forma e nella simbologia tematica (impossibile non cogliere le frecciate alla società statunitense contemporanea e agli effetti della politica trumpiana), dall’altro è il West Side demolito, fatto a pezzi e superato dal tempo e dal nuovo gusto cinematografico.

Solamente così, solamente indossando una doppia veste, una doppia maschera, Spielberg riesce a scongiurare la minaccia dell’oblio e a proporsi come sintesi perfetta sulla quale costruire un ponte in grado di abbracciare tanto il passato quanto il presente. E tutto si concretizza nella prima inquadratura proprio perché, seppur completamente diversa rispetto quella che apriva il film originale, resta formalmente identica. Lì, sempre in plongeé, erano ripresi i grattacieli di New York in tutto il suo splendore; qui, alla stessa maniera, le macerie di quel medesimo splendore.

Non è più tempo di grande cinema? Forse. Eppure Steven Spielberg non smette di nutrire una fede cieca nei confronti di quest’arte, di questo spettacolo. West Side Story è un film a dir poco vibrante. Proprio come la “comunicazione” tra specie in Incontri ravvicinati del terzo tipo, anche qui si dialoga con luci e rumori, immagini e suoni, per dare vita a uno show che si trasforma prestissimo in un viaggio sensitivo. Tutto si muove in funzione del cinema in West Side Story, dal dinamismo della macchina da presa al ritmo scandito dal montaggio, dalle luci abbaglianti delle sequenze romantiche alle svolazzanti gonne colorate del corpo di ballo, dalla poco credibile altalena emotiva a cui sono soggetti i personaggi all’incomprensione narrativa di alcune loro azioni. Niente nel film vuole farci pensare di avere a che fare con qualcosa di verosimile, tutto è caricato sino all’eccesso per rimarcare la distanza e la finzione di uno spettacolo che restituisce però emozioni purissime in tutta la loro essenza.

Non deve allora sorprendere che, finalmente, Steven Spielberg si sia cimentato con un musical. Proprio lui che, in maniera decisamente invisibile, non ha fatto altro che dirigere musical per tutta la sua carriera. Qui ha solamente deciso vestire il genere, ma il cinema a cui da sempre ci ha abituati è una macchina perfettamente oleata e capace di bilanciare e amalgamare qualsivoglia ingranaggio a disposizione per restituire incredulità negli occhi di chi guarda. Non è forse una coreografia magica quella messa in scena nella famosa scena del volo in bicicletta in E.T.? Non è forse un passo di danza collettivo il piano sequenza de Le avventure di Tintin?

West Side Story è il manifesto più esplicito dell’amore che Spielberg nutre nei confronti del cinema. La sua passione, la sua venerazione per la settima arte è paragonabile a un sacramento (fate caso alla ritualità della “scena delle nozze” in questo film). Così, più che ricercare e far dialogare la pellicola con i grandi riferimenti del genere, ha senso provare a interrogarsi sulle rime interne alla carriera del regista. Ce ne sono molte, anche se la più ingombrante resta quel para siempre (pronunciato tra l’altro da Rita Moreno che incarna alla perfezione quel siempre, essendo presente tanto qui che nel West Side Story classico) con il quale si chiudeva anche E.T.. Lì una promessa (ir)realizzabile solo grazie al cinema, qui un miracolo certificabile esclusivamente nel cinema.

Solamente così, quella dedica finale al papà scomparso diventa il simbolo per eccellenza del ponte generazionale in grado di travalicare lo spazio-tempo che West Side Story vuole essere. Un ponte che, per questa volta, non appartiene alle spie, ma al grande cinema.