Sembra What a feeling invece è L’ammore overo (altrimenti detta L’amore ritrovato) e a cantare non è Irene Cara bensì Serena Rossi. È Ammore e malavita ma non temete: non sembra Flashdance e non vuole nemmeno assomigliargli. Ammore e malavita è un film intelligente che dialoga con la tradizione cinematografica − divertendosi ad instaurare con lo spettatore un gioco di sospensione dell’incredulità e di rimandi che vanno da Agente 007 - Si vive solo due volte a Matrix − ma anche con la tradizione musicale partenopea: la vicenda del film si svolge tra Napoli e Scampia e sia molti dialoghi sia i testi delle canzoni di Pivio e Aldo de Scalzi (David di Donatello 2018 per i migliori musicisti e per la miglior canzone originale, Bang Bang) sono in napoletano, richiamando il genere di rappresentazione popolare noto come sceneggiata.

Contestualizzato il gioco, il film dei Manetti però non si limita a sfornare ballate napoletane facendo il verso al grande musical americano: l’operazione di Ammore e malavita è più sofisticata e si articola su due livelli.

Il primo, piuttosto tipico nel cinema manettiano, è quello del dialogo con il passato proiettato verso il futuro. La sequenza della canzone Ammore overo ne è un esempio lampante. La scena si sviluppa su due piani temporali mostrandoci l’amore passato tra l’infermiera Fatima e il sicario Ciro mentre lei gli canta il suo mai sopito amore. L’estetica è quella del videoclip, le luci che si accendono sembrano quelle di una discoteca nonostante ci si trovi nel corridoio di un ospedale, la coreografia tocca bonariamente il trash (al posto di Jennifer Beals, a ballare sulle note della canzone c’è un ragazzo sovrappeso attaccato alla flebo) e si respira un’atmosfera anni Ottanta. 

Ma le immagini sovrapposte del presente e del passato, oltre al compito didascalico ed illustrativo per lo spettatore, assolvono appunto a quello riflessivo meta-cinematografico: il presente di Fatima e Ciro si inserisce nel loro passato, proprio come Ammore e malavita si inserisce nella tradizione del musical, adattandone gli stereotipi, i cliché e gli elementi fondativi al contesto italiano. Tutte le sequenze di ballo, in fondo, hanno questa ironia bifronte: da una parte si guarda alla storia del genere e alle aspettative che esso crea nel pubblico, dall’altra alla situazione italiana dal punto di vista storico-cinematografico e sociale.

E difatti è questo il secondo livello del film: una riflessione sul potere dell’immagine, cinematografica e televisiva; l’illustrazione di quanto l’immagine di un contesto sociale sia spesso televisivamente costruita. In un genere che non fa mistero del suo essere finzione, i Manetti instaurano un cortocircuito socio-visivo che ironizza (forse troppo) sui disagi sociali di certe zone geografiche del Sud Italia, facendo riflettere sull’impatto del successo di certi fenomeni letterari e televisivi sullo stato delle cose. Attraverso sequenze come quella dello scippo a Scampia i registi romani rielaborano così una visione post-Gomorra (il libro e la serie) ragionando su quanto del nostro immaginario sia ormai direttamente derivato da cinema, TV e serialità.

Alla base di un’operazione come Ammore e malavita si può dunque leggere una profonda fiducia nel cinema italiano e nella sua possibilità di svincolarsi dai dettami del mainstream USA per mostrare al pubblico e alla filiera cinematografica (come già aveva fatto Roberta Torre) che l’industria nostrana può rappresentare ed esprimere profondamente la nostra identità non solo nei piccoli film d’autore a basso budget, ma anche quando si tratta di generi, balli e tante comparse.