Inizialmente Where It Floods lascia confusi, con anche un pizzico di senso di colpa. L'itinerario fra gerghi, dinamiche e luoghi familiari è reso straniante dall'aspetto di breve (neanche cinquanta minuti) e piuttosto bidimensionale film d'animazione; un mondo che sentiamo di conoscere affiora appena dall'acqua. Marito e moglie con l'unico figlio vivono ancora nella casa di sempre nonostante un'alluvione abbia sommerso gran parte delle terre circostanti. Nei dintorni non c'è quasi più nessuno, l'unica cosa che li trattiene lì è l'ostinazione dell'uomo a non abbandonare ciò che appartiene alla sua famiglia da ben sette generazioni.

"Where it floods", ossìa "dov'è l'inondazione". Una volta capito questo e in che termini il puzzle è piuttosto semplice. La soluzione è l'America, ma non solo come teatro casuale ancorchè suggestivo del cataclisma naturale: vediamo su una mappa che l'intero continente nordamericano è stato sommerso, mentre il resto del mondo non è mai in questione. Una sorta di Giudizio Universale localizzato. Non sono gli States di oggi in particolare a preoccupare il regista Joel Benjamin. Nessun accenno all'attualità, l'acqua nasconde la fisionomia del paesaggio e sgombra il campo dal contingente. Si punta invece allo scheletro, all'atomo della civiltà americana esemplificato nel nucleo familiare. Where It Floods è la cronaca di una persistente crisi culturale.

Come dicevamo anche noi, spettatori europei o comunque non statunitensi, percepiamo quel senso indistinto di appartenenza. Dev'essere perchè ci sono noti i modi. In fondo il film si inscrive nella più genuina tradizione dell'elegia crepuscolare americana. Finisce come Eastwood fa iniziare Il texano con gli occhi di ghiaccio e Gli spietati; la sua idea di post-apocalittico ricorda il tardo McCarthy di La Strada; e l'elemento caratterizzante dell'acqua lo mette in relazione col versante musicale di quella tradizione, evocato dalla bella colonna sonora alt-country: la profezia del Diluvio in A Hard Rain's A-Gonna Fall del predicatore Dylan, il fiume rosso di sangue in Powderfinger di Neil Young, quello dei ricordi e dello spirito in The River di Springsteen.

L'intera topografia dei valori americani boccheggia nel tentativo da restare a galla. La famiglia si incrina, la difesa del territorio non è mai stata tanto inutile, l'individualismo rivela più che mai il suo doppiofondo di solitudine. Relazioni e rituali senza più orizzonte si perpetuano per inerzia, quasi come fantasmi. Nomi di città che hanno perso il loro suono colloquiale, partite di baseball mai giocate, padri che proprio non riescono a convincere i figli a sparare al cervo. Se ci si chiede come possa contribuire l'animazione a un quadro così inflazionato una buona risposta, oltre a quel senso di straniamento a cui accennavamo, è nella bellissima sequenza finale in cui l'acqua invade a ritroso decenni di ricordi, e potrebbe continuare ancora, per tutte e sette le generazioni della famiglia Barnes.