Where’s My Roy Cohn? La domanda che fa da titolo al documentario di Matt Tyrnauer, apprezzato al Sundance e presentato alla Festa del cinema di Roma, è stata pronunciata dal presidente Trump ai tempi del Russiagate. L’invocazione di “The Donald” è ben comprensibile, dal momento che il famigerato avvocato Roy Cohn ha attraversato il peggio della storia americana, mantenendo il ruolo di eminenza grigia della politica di destra made in USA. La condanna a morte dei coniugi Rosenberg, la commissione per le attività antiamericane, i processi contro i boss delle famiglie mafiose, l’ascesa economica di Trump: il volto di Cohn appare accanto a quello dei più discussi personaggi del secondo novecento, dal senatore McCarthy all’attuale inquilino della Casa Bianca.
“Non sono un omosessuale. Sono un eterosessuale a cui piace scoparsi i ragazzi”. Questa frase, pronunciata dal Roy Cohn immaginato da Tony Kushner nel suo dramma Angels in America (assolutamente da vedere o rivedere la versione HBO diretta da Mike Nichols con Al Pacino), potrebbe tranquillamente essere attribuita anche al Cohn reale raccontato nel documentario, ed è una sintesi perfetta delle sue contraddizioni: ebreo che odiava essere ebreo, omosessuale che ha negato sempre il suo orientamento, affermando fino all’ultimo di essere malato di cancro al fegato quando tutti sapevano che stava morendo di AIDS. Questa schizofrenia è il centro nevralgico della ricostruzione di Tyrnauer, l’ambiguità più evidente e paradossale di uomo senza principi morali, pronto, in nome di una cieca ricerca del potere, a cavalcare la paura comunista, ad appoggiare l’epurazione degli omosessuali dagli uffici governativi (però fu la sua infatuazione per il bel G. David Schine e le pressioni fatte per favorirne la carriera nell’esercito che crearono la prima incrinatura nella folle caccia alle streghe maccartista), a difendere mafiosi e criminali, a farsi inserire da Reagan (che negò a lungo la gravità dell’epidemia) tra i beneficiari delle prime cure sperimentali per AIDS.
Il documentario ne ripercorre la parabola con accuratezza, supportandola con documenti, articoli di giornale, interviste d’epoca allo stesso Cohn e testimonianze di persone che l’hanno conosciuto. Ne viene fuori un ritratto cedibile e sfaccettato, in cui si riesce anche ad intravede qualcosa dell’uomo dietro l’orrore della sua assoluta mancanza di scrupoli. Qualcosa, non di più, perché il film non è (come potrebbe esserlo?) per niente indulgente nel mettere insieme gli acuminati pezzi del mosaico che componevano la complessa personalità di Cohn. Il risultato è un pugno nello stomaco disturbante, utilissimo per conoscere più da vicino uno dei maestri della (im)moralità trumpiana, da cui l’allievo sembra aver ereditato, tra le altre cose, la tecnica – purtroppo efficacissima – di attaccare l’interlocutore per nascondere la verità.
Gianluca De Santis