Senza voler affrontare la storia, quasi parallela, della psicoanalisi e del cinema, nel 1895 escono gli Studi sull’isteria di Sigmund Freud e Joseph Breuer e il 1895 è l’anno della prima proiezione dei fratelli Lumière, possiamo dire che fin dal principio sono stati numerosissimi i punti di contatto tra lo studio dell’inconscio, svelato dall’interpretazione dei sogni, e la veglia sognante di fronte alla quale lo spettatore si abbandona ogni volta che entra in una sala cinematografica, in fin dei conti, “l’unico mezzo a disposizione di tutti per interrompere il noioso, prolisso e lunghissimo film della nostra coscienza quotidiana (…), l’unico mezzo che ci permette di ripetere l’inquietante ma splendida esperienza del sogno sognante, quasi sempre purtroppo dimenticata al risveglio del mattino”. (Glen O. Gabbard e Krin Gabbard, Cinema e psichiatria, Milano 2000)
Premettendo quindi un comune linguaggio teso a rivelare i misteri dell’animo umano, è giusto aggiungere quanto la psicoanalisi si presti ad essere saccheggiata a piene mani. Il fascino che questa nuova disciplina esercita non può essere slegato dal protagonista indiscusso della sua divulgazione, ovvero lo psicoanalista, figura emblematica che riflette tutte le contraddizioni e le ambiguità della professione.
Billy Wilder è uno dei tanti registi che, pur non essendo mai andato in analisi, ha sintetizzato in pochi e significativi tratti caricaturali l’altera figura dello psicoanalista, una trasposizione cinematografica macchiettistica che risente certamente delle proprie origini austriache, alle quali si aggiunge forse un antico risentimento mai del tutto sopito. Wilder nel 1925, è un giovane giornalista che scrive per “Die Stunde”, in occasione dell’edizione natalizia realizza un’inchiesta su Mussolini e il fascismo, intervistando diverse personalità di Vienna (Alfred Adler, Arthur Schnitzler e Richard Strauss) non restie a concedergli un incontro, mentre Sigmund Freud, che non ama i giornalisti, lo mette alla porta. Più volte gli è stato chiesto di rammentare nei minimi dettagli questa esperienza poco fruttuosa e lui, senza infarcire un racconto di per sé piuttosto scarno, ha sintetizzato quell’evento riportando la frase con cui lo psicoanalista lo ha freddamente congedato: “Quella è la porta!”.
Wilder, arrivato in Berggasse 19, dove si trova l’abitazione di Freud, viene accolto dalla domestica e nell’attesa ha modo di osservare l’ambiente circostante: “Attraverso la porta semiaperta della sala d’aspetto potevo vedere il suo ambulatorio con il divano – era molto più piccolo di quanto immaginassi. Dopo un paio di minuti si aprì la porta della sala da pranzo, e mi trovai davanti Freud – anche lui molto più piccolo di quanto immaginassi. Aveva ancora il tovagliolo infilato nel colletto, e in mano teneva il mio biglietto da visita. ‘Lei è un reporter?’ ‘Sì, professore!’ Indicò con la mano: ‘Quella è la porta!’ Con il senno di poi, mi pare più onorevole essere buttato fuori da Freud che essere l’invitato d’onore a una cena di gala di Gheddafi”. (Hellmuth Karasek, Un viennese a Hollywood, Billy Wilder, Milano 1993)
Non essendoci altre testimonianze viene da pensare che Wilder sia arrivato in ritardo all’appuntamento, o forse troppo in anticipo, non tanto per giustificare la brusca reazione di Freud ma deducendolo dal tovagliolo che questo porta al collo, in ogni caso l’aneddoto alimenta a lungo le voci su una presunta vendetta del regista nei confronti del padre della psicoanalisi, sbugiardato e irriso in molti suoi film. Gli psicoanalisti che compaiono in queste pellicole “provocano sciagure, curano cani e mettono in moto intrighi della peggior specie; come il dottor Eggelhofer di Prima pagina, appositamente giunto da Vienna per combinare un sacco di pasticci”, molti, spiega Wilder, trovano in questo atteggiamento irrispettoso una critica “nei confronti della selvaggia proliferazione della psicoanalisi qui in America. È stato detto anche che era dovuto al mio rancore per essere stato buttato fuori da Sigmund Freud. Personalmente posso dire solo che nei miei film utilizzo tutto ciò che è comico. Anche i medici – per quanto poi mi ritrovi in preda al timore di una loro vendetta, nel caso prima o poi mi toccasse ricorrere alle loro cure”.
Già nel 1927, in un articolo scritto per il “Börsen-Courier” dal titolo Da Grock: l’uomo che fa ridere il mondo, Wilder, a proposito del famoso artista circense, riporta una breve storiella nella quale troviamo le prime tracce di quell’ironia un po’ cinica che lo porterà a parodiare lungamente la categoria degli psicoanalisti: “Un uomo malinconico andò da un famoso medico a lamentarsi del proprio stato. Il medico gli consigliò: ‘Vada a vedere il clown Debureau. Se neppure lui riesce a farla ridere, è un caso disperato’. L’uomo scosse il capo: ‘Non posso andare a vedere Debureau. Io sono Debureau’”.
Non sapremo mai se Freud abbia letto l’articolo ma certamente questa freddura non avrebbe sfigurato nel suo Der Witz (Il motto di spirito, 1905) che con ogni probabilità Wilder conosce bene. In quasi tutti i film troviamo frecciatine più o meno velate che ironizzano sull’inefficacia della psicoanalisi, dall’esempio eclatante di Prima pagina (1974) fino ad arrivare a Buddy Buddy (1981), ultima pellicola del regista e, nel nostro caso, testamento spirituale in cui l’abitudine consolidata di schernire gli strizzacervelli trova la sua apoteosi grazie a un rappresentante d’eccezione, Klaus Kinski nei panni del dottor Zuckerbrot, l’inquietante direttore di una clinica per malattie sessuali.
Wilder è certamente un uomo di larghe vedute e quando ne Il valzer dell’imperatore (1948), film che detesta (girato solo perché la Paramount cercava un soggetto per Bing Crosby), farà psicanalizzare un cane, non ci stupiamo più di tanto nel trovare sdraiata su un divano, sostituto del celeberrimo lettino, la barboncina Sherazade, mentre lo psicoanalista (Sig Ruman), allievo di Freud, come lui stesso tiene a precisare, formula la sua diagnosi.
Questa sequenza così spassosa ha un fondo di verità, non possiamo dire con certezza che Wilder sia a conoscenza del legame profondo che unisce Freud alla sua Chow-Chow Jo-fi, ma con molte probabilità ha sentito parlare del libro scritto da una sua paziente e allieva, la pronipote di Napoleone, Marie Bonaparte, dedicato alla sua amata Topsy (1937), sorella di Jo-fi, testo che Freud apprezza molto e traduce in tedesco assieme alla figlia Anna; va detto che le sue ultime traduzioni, Le lezioni del martedì della Salpêtrière di Charcot (1892-94), risalgono agli anni della giovinezza. Nel libro della Bonaparte, pur non essendo un lavoro analitico, Freud riconosce il tentativo di immedesimarsi nella psicologia animale, “in questa creazione”, scrive in una lettera indirizzata a “Meine liebe Marie”, “s’intravede da parte dell’analista una ricerca di verità e di sapere”. (Marie Bonaparte, Topsy, le ragioni di un amore, Torino 1990)
Billy Wilder non fa altro che mettere in scena questa “ricerca di verità” e viene da credere, osservando Sherazade guaire sul lettino, che cani e psicoanalisti parlino la stessa lingua. Questa osservazione, un po’ canzonatoria, non è del tutto sbagliata, infatti Jo-fi ha l’abitudine di assistere alle sedute di analisi nello studio del suo padrone; Martin, il figlio di Freud, ricorda che “quando Jo-fi si alzava e sbadigliava, era questo il segno che l’ora era conclusa; essa non si fece mai sorprendere in ritardo nell’annunciare la fine della seduta, benché mio padre sostenesse che era capace di un errore di forse un minuto, a spese del paziente”.