L’idea di partenza
Voglio fare un film completamente diverso. Quando ho cominciato a riflettere sul prossimo progetto, avevo in mente di incentrarlo su una persona reale, girare una commedia ma realistica. Basta con i tizi che si risvegliano nel futuro, i rapinatori di banche e i conquistatori di paesi del Sud America. Voglio fare un film in cui io e Diane Keaton interpretiamo noi stessi, abitiamo a New York e nella nostra relazione affrontiamo conflitti reali. Lo preferirei a una commedia più stravagante. In questo nuovo copione sto cercando di lavorare dall'interno, di partire dalle nevrosi per poi esternarle, in modo che fra cento anni il film non risulti datato.[…] I conflitti di oggi sono molto diversi rispetto a quelli delle talk comedies di dieci anni fa, che si basavano sempre su elementi esterni ai personaggi. E molto difficile far scatenare un numero sufficiente di scintille filmiche usando soltanto i personaggi. Se io e Diane dovessimo avere un confronto in un film, oggi, per risultare realistico, il conflitto avrebbe connotazioni psicologiche. Non le direi mai: “Sai cara, si era detto che avremmo provato questa casa di campagna per un mese ma abbiamo già la cantina allagata e piena di procioni”. Più probabilmente lei mi direbbe: “Vorrei vivere sulla Costa Occidentale”, e io ribatterei: “Certo, vuoi vivere sulla Costa Occidentale perché lì abitano i tuoi, hai un attaccamento nevrotico alla tua famiglia”. Forse però i procioni fanno ridere di più.
La sceneggiatura
Marshall Brickman ed io lavoravamo insieme nel cabaret. Lui faceva parte del numero musicale, suonava il basso e la chitarra. E diventammo amici, parlavamo spesso. Allora decidemmo che avremmo tentato di scrivere qualcosa insieme per divertirci. Lo facemmo e la cosa ci piacque. Scrivemmo insieme II dormiglione, poi Io e Annie e poi Manhattan. E ora abbiamo scritto insieme Misterioso omicidio a Manhattan. Mi piace molto. È sempre stato un amico ed è molto simpatico. Ha anche diretto vari film. Camminavamo per strada insieme, pranzavamo insieme, cenavamo insieme. Ce ne stavamo seduti in una stanza insieme. E parlavamo, parlavamo, parlavamo. Poi, una volta finito di parlare, io andavo a scrivere il copione. Poi lo mostravo a Marshall e lui faceva le sue osservazioni: «Questa scena mi sembra buona, ma quest'altra è debole. Perché non la facciamo così, invece?». Lui mi offriva nuovi punti di vista e nuove idee, ma sentivo di dover essere io a scrivere materialmente la sceneggiatura. Ero io che dovevo recitarla, perciò volevo che fosse scritta in modo da agevolarmi il compito.
La musica
In quel periodo [...] non ero ancora sicuro di ciò che volevo fare dal punto di vista musicale. Perciò tentai di fare questo film senza musica. L'unica musica in Io e Annie è la musica in presa diretta. Non c'è assolutamente una colonna sonora. La musica proviene da un'autoradio, da una festa o qualcos'altro. Ma non c'è musica nel film. Non so, stavo solo sperimentando, per vedere che effetto faceva usare la musica in maniera così sobria. Ero molto intransigente in quel che sentivo. Non m'importava se al pubblico sarebbe piaciuto o no. Volevo soltanto dare una svolta alla mia carriera. Se oggi facessi lo stesso film, probabilmente ci sarebbe un sacco di musica. C'è anche un'altra spiegazione possibile. Ricordo che Ingmar Bergman non ha mai usato la musica, e all'epoca ero così attratto dal suo stile che potrei aver pensato “Forse ha ragione lui sull'uso della musica”. Ma negli anni ho maturato una posizione diversa nei confronti della musica.
I titoli di testa
In film come Il dittatore dello stato libero di Bananas e Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso... avevo realizzato dei titoli molto fantasiosi, ma per Io e Annie pensai “È sciocco spendere soldi per i titoli! È una stupida abitudine americana. Prenderò i titoli più economici che riuscirò a trovare, per annunciare il film nel modo più semplice possibile”. Allora scelsi un corpo e un carattere che mi piacevano, e da allora non l'ho cambiato più. Perché, in fondo, che senso hanno i titoli? Non sono altro che delle semplici informazioni. Ora questi titoli sono diventati un marchio di fabbrica dei miei film. E penso che vadano bene. Non costano niente.
La prima scena
La prima scena che girammo fu quella delle aragoste e in uno dei ciak dovemmo interrompere per un mio attacco di ridarella. La Keaton mi fa sempre ridere […] Rimasi colpito dal ciak ininterrotto e capii che avremmo usato quello. Mai riso tanto in vita mia . Ed è uno dei ciak migliori del film grazie alla sua sincera spontaneità. Il film nacque sotto una buona stella.
La fotografia
Gordon Willis, il direttore della fotografia, dal punto di vista tecnico, fu un maestro molto importante per me. Tecnicamente, è un vero mago, ma è anche un grande artista. Mi ha insegnato molte cose sulla macchina da presa e sulle luci, ha rappresentato una svolta per me sotto ogni aspetto. Perciò il film appare diverso, ed è effettivamente diverso dal punto di vista qualitativo. Da allora in poi, ho sempre considerato Io e Annie il primo passo verso la maturità in un certo modo di fare film. [Far parlare gli attori fuori campo] l'ho imparato da Gordon. Ricordo che stavamo preparando una ripresa per la scena in cui Alvy e Annie si dividono i libri dopo aver deciso di troncare, e gli dissi: “Non sempre i due sono inquadrati mentre parlano. Va bene?” E lui: “Sì, sì, ottimo, non è un problema.” Se mi avesse detto: “Ma no, non si può fare, cosa ti salta in mente?” non l'avrei fatto. Una volta ottenuta la sua approvazione, invece, ripetemmo l'esperimento anche in altri film. È una soluzione che adotto ancora oggi.
Coney Island e l’infanzia
Sono cresciuto a Brooklyn, non così vicino ma neppure troppo lontano da Coney Island, che era un grande, leggendario parco di divertimenti. All'epoca della mia infanzia era già piuttosto in rovina, ma c’era ancora. E io ci trascorrevo un sacco ai tempo. Andavo sempre lì con i miei amici. Andavamo a nuotare, passeggiavamo sul lungomare. […] In origine, nella sceneggiatura di Io e Annie, non si diceva che ero cresciuto proprio nel parco di divertimenti, bensì dove sono davvero cresciuto, cioè a pochi chilometri dal parco. Ma mentre facevamo un giro in macchina per Brooklyn, in cerca di luoghi in cui fare le riprese, Gordon Willis, lo scenografo Mei Bourne ed io ci trovammo di fronte a queste montagne russe e vedemmo che sotto ci stava una casa. Allora pensai che avremmo dovuto usare quell'immagine. Così ho trasferito le origini del personaggio in quella casa. È un'immagine di grande forza. [La mia prima infanzia] è rappresentata fedelmente. Vivevo in un posto come quello che si vede nel film e frequentavo una scuola con tutte quelle vecchie insegnanti molto, molto severe e molto antipatiche.[...] Ricordo la mia infanzia in certi modi. Talvolta la ricordo in maniera spiacevole, altre volte, invece, me la ricordo più piacevole di quanto fosse. E difficile ricordarla esattamente, in maniera precisa.
Marshall McLuhan e gli intellettuali newyorkesi
McLuhan, in Io e Annie, mi serviva per attaccare l'iper-intellettualismo in arte, e in particolare nel cinema. La presa in giro non è diretta contro McLuhan; ho cercato di avere Fellini, Lina Wertmuller, dei filosofi, Ionesco, un sacco di gente, almeno quindici persone. Ma tutti erano occupati o non volevano. Alla fine ho chiamato McLuhan e lui ha accettato. Ha una figlia a New York e voleva venirla a trovare. Ma la sua apparizione serve soltanto a fare della satira ai danni dell'altro personaggio. Perché succede spesso, negli Stati Uniti, quando si va al cinema, ci si mette infila e c'è sempre qualcuno troppo intellettuale, che parla troppo e ha sempre torto.
Il finale
Stavo girando quella scena con Diane Keaton, e quando giro un esterno per strada, in luoghi reali, e sto realizzando il momento clou di un film, come l'inquadratura iniziale o quella finale, oppure un altro momento molto importante, di solito guardo la scena per vedere come posso tirarne fuori un finale drammatico o soddisfacente dal punto di vista emozionale. E qui, poiché avevo soltanto la strada e il piccolo caffè, mi sembrava che la cosa migliore da fare fosse quella di lasciare che i due personaggi svanissero e che la vita della strada continuasse a fluire. Lo sentii istintivamente. Sentii che la cosa avrebbe attratto il pubblico e gli avrebbe dato un'emozione più intensa. E in seguito, quando vidi la scena con la musica, mi sembrò ben fatta, perciò la lasciai così. Con quel finale balbettammo, feci molta fatica. C’erano molte scene e molte ide diverse. Dai e dai, arrivai a quello, per tentativi. Da un punto di vista freudiano si potrebbe concludere che gli uomini accettano di affrontare le difficoltà delle reazioni amorose solo perché hanno bisogno di uova. O di ovaie.
Reazioni
Quando uscì Io e Annie, in molti ebbero la sensazione che mi fossi venduto o avessi commesso un errore madornale, perché il mio tipo di film era II dittatore dello stato libero di Bananas, o Prendi i soldi e scappa, Amore e guerra, quel tipo di film surreale. Se nel film il pubblico non trova un'accozzaglia di battute anarchiche o demenziali, ci resta male. Lo ricordo molto chiaramente con Io e Annie perché non si trattava soltanto di strane lettere di pazzoidi che ricevevo nella posta, ma anche di gente che conoscevo personalmente. Charlie Joffe mi ripeteva: “Gesù, i miei amici si chiedono come mai perdi tempo con certa roba.” Ovviamente, reazioni del genere si sono moltiplicate quando ho cominciato a proporre film seri. [...] Probabilmente per molti è inspiegabile il motivo che mi spinge a cimentarmi con qualcosa di tanto lontano dal cinema che mi ha reso popolare, che non so nemmeno fare bene, e per il quale non ci sarebbe mercato nemmeno se mi riuscisse meglio. Li capisco, ma educatamente rispondo sempre: “Immagino che tu abbia ragione”, e continuo per la mia strada.
Le dichiarazioni di Woody Allen sono tratte da:
Woody Allen con Eric Lax, Conversazioni su di me e tutto il resto, Bompiani, Milano 2008
Woody Allen su Woody Allen. Intervista di Stig Björkman, Laterza, Roma-Bari 1994