Era in concorso a Cannes nel 1968, il festival interrotto, e, col senno di poi, può essere un gioco stuzzicante quello di ipotizzare i possibili vincitori di allora. Tuttavia è evidente che l’incandescente situazione politica fece passare in secondo piano il motivo per cui si organizza una manifestazione del genere: far vedere dei film ad una platea internazionale. Ne fece le spese anche il debutto di Witold Leszczyński, nel solco della linea rigorosa ed ascetica di Dreyer e Bresson: Żywot Mateusza si può tradurre in italiano più o meno con I giorni di Matteo, ma è una resa arbitraria perché da noi (e non solo) non ha circolato. Il recente restauro permette, dopo cinquant’anni di incredibile censura, di scoprire finalmente un oggetto che ci appare oggi di sconcertante modernità.

Suddiviso in sette capitoli dai titoli lapidari (Casa, Villaggio, Uccello, Isola, Albero, Lago, Pietra), è un racconto che monta i percorsi, interiori o tangibili, di un uomo considerato non particolarmente intelligente dalla sua comunità di appartenenza (moglie compresa, forse), che dialoga con la natura e si chiede “perché le cose stanno come stanno”. Dilemma probabilmente naif, che chiede allo spettatore di seguire la ricerca delle risposte con la pazienza di chi aspetta che la pianta cresca di fronte agli occhi.

Nello stupefacente bianco e nero di Andrzej Kostenko, si espande una sinfonia di immagini abbacinanti, immerse nel bianco di un cielo che sembra quasi non esserci, come se le nere figure umane fossero ombre su un muro o addirittura corpi nel vuoto, tra inquadrature fisse alternate a lenti carrelli che dalla triste casetta passano ad un lago sul cui specchio si riverbera la luce impalpabile di un mondo a parte.

Ai margini delle metropoli, della contestazione, del cambiamento, in questo universo immutabile sacro e profano si (con)fondono in simboli o simbolismi sempre soggetti ad una doppia lettura, annidandosi nei tronchi delle fitte foreste e nelle pietre che riaffiorano dall’acqua, nei volti angelici di bionde apparizioni oniriche e negli aerei che lasciano scie destinate a comunicare con le traiettorie degli amati uccelli, nello strappo delle camicie all’altezza dei bicipiti e nell’avventura sessuale forse solo ipotizzata con le due sirene senza coda.

Un po’ buon selvaggio e un po’ inconsapevole vittima degli eventi, non privo di sprazzi di imprevedibile lucidità ma pressoché sempre inabissato in uno stato più separato dal suo spazio di riferimento che in conflitto con la sua incapacità di accordarsi alla sua dimensione più intima e nascosta, Franciszek Pieczka interpreta Mateusz con lo sguardo impenetrabile di chi sovverte l’ordine necessario soprattutto al  mantenimento del suo status quo. Un personaggio complesso, davvero ribelle perché ignaro di esserlo, destinato ad una radicale rottura con gli schemi (familiari, comunitari, topografici) ai quali è tuttavia devoto, tormentato dal bisogno di sapere se esista “qualcosa di cui non si debba aver paura”.