Fellini documentario. È a partire da questo accostamento ossimorico che vorremmo addentrarci in un breve approfondimento del suo bellissimo film I clowns, appena restaurato dalla Cineteca di Bologna in collaborazione con Compagnia Leone Cinematografica e presentato in sala alla presenza di Alvaro Vitali e del direttore della fotografia Blasco Giurato.
Abbiamo una certezza: Fellini non sapeva essere obiettivo, perché la soggettività era la sua cifra stilistica, esasperata fino all’onirismo. Come aveva ammesso lui stesso nelle confessioni autobiografiche del libro Fare un film (Einaudi 1974), “il lavoro è, per me, un fatto di vita completo. Non riesco a compierlo in maniera distaccata, professionale. […] Il mio schema selettivo mi porta ad essere, […] l’anti-giornalista, l’anti-testimone”. Eppure Federico decide di dedicare una “finta” inchiesta proprio ai clown, quelli che lui definiva gli “ambasciatori” della sua vocazione. In una domenica pomeriggio scrisse la sceneggiatura insieme a Bernardino Zapponi, condita da un fugace viaggio a Parigi, alla ricerca di quel certo non so che, di un minimo appiglio storico probabilmente.
Grazie alle insistenze del produttore Peter Goldfarb, Fellini inciampò nella televisione, “questa specie di ponte tra l’autore e il pubblico” “questo occhio grigiastro, spalancato nella casa” come un extraterrestre, e in prima battuta, realizzò in mezza giornata Block-notes di un regista, con una grande disinvoltura – ricorda ancora il regista nel suo libro - e con una approssimazione e leggerezza, rispetto al suo modo solito di lavorare, che gli avevano riempito l’animo di letizia. Diceva “mi era parso di camminare più spedito senza valigie”. Si perché per Fellini il momento creativo era anche un fardello, dunque non gli parve vero di poter essere produttivo con spensieratezza, senza porsi troppi problemi sul risultato finale, sulla valutazione estetica, sul messaggio. Fellini vide nella televisione la possibilità di una esperienza nuova. E la colse al volo. A modo suo ovviamente. Interpretò la televisione come un altro modo di fare cinema, ma comunque sempre da un punto di vista soggettivo. È forse per questo che nel suo film sui clown Fellini aderendo alla necessità ontologica della televisione, il puntare più sulla parola che sull’immagine, usa il suo documentario per continuare ad essere l’inguaribile bugiardo di sempre. Distorce la realtà filmata, per dire la sua versione dei fatti. L’anti-giornalista, punto.
Scriveva Tatti Sanguineti nel suo libro Voci del varietà – Federico delle voci (Fondazione Federico Fellini) “Nulla di quello che si ha nelle finte interviste di questo finto film di inchiesta è stato detto dagli intervistati o pseudo intervistati. Anzi, come vedremo, esattamente il contrario. Il doppiaggio come “bidone”. Battute che contengono bugie, solo bugie, nient’altro che bugie”. Sanguineti si riferisce, in particolare, alla finta intervista a Tristan Rémy, “grande autorità internazionale degli studi storici sul circo da cui i nostri si aspettano (e come avranno sicuramente mezzo concordato per telefono) l’intonazione delle esequie di cui Fellini ha bisogno”. Ma, al momento di girare, Rémy sostiene invece tutto il contrario di quello che doveva dire, che “il circo è vivo e lotta insieme a noi, che ci sono meravigliose prospettive di rinascita” e via dicendo. Fellini non ci pensò nemmeno a rigirare l’intervista magari con un altro interlocutore. Tenne buona la pellicola che aveva impressionato, e con un piccolo “ritocchino” in post-produzione, complice il direttore del doppiaggio Mario Maldesi, mise in bocca al signor Rémy l’esatto contrario di quello che aveva detto.
È anche per questo che I clowns diventano la parodia di una inchiesta, proprio a causa di questo rapporto squilibrato di Fellini rispetto al fare domande: “[…] io sono partito bene intenzionato a fare un’inchiesta seria […] Però mi sentivo assai goffo. In verità io non so fare domande. E, se azzecco una domanda, non mi interessa la risposta. Allora, strada facendo, ho raccontato questo disagio […] Tra l’altro nel fare l’inchiesta, c’è anche quel tanto di invasione poliziesca dell’intimità altrui, che mi ha sempre dato fastidio. […] Perciò nella mia inchiesta c’è un chiaro risvolto satirico […] Lo ripeto, l’unica documentazione che uno possa dare è sempre soltanto la documentazione di se stesso. L’unico vero realista è il visionario, chi l’ha detto? Il visionario, infatti, dà testimonianza di avvenimenti che sono la sua realtà, cioè la cosa più reale che esista”.
E per Fellini la crisi del mondo circense era reale. Il suo attaccamento ancestrale a questo mondo era più che reale, viscerale. Nel momento stesso in cui Fellini ci racconta del cinema, ammette di non sapere niente dell’argomento a lui più caro, se non di poter descrivere, per immagini, nell’unico modo a lui congeniale, il mondo di emozioni che il circo aveva suscitato in lui sin da bambino. La paura, lo stupore, il silenzio incantato, poi “il clangore delle trombe”, la folgorazione dello spettacolo grottesco, confusionario, visionario, appunto, dei pagliacci. Il circo e il cinema, ma anche, il circo è il cinema, in una osmosi continua tra le due forme di fantasia parossistica che possedevano il regista. E infatti “il cinema, voglio dire fare del cinema, vivere con una troupe che sta realizzando un film, non è come la vita del circo”?
La risposta è nella scena finale del film: il funerale del clown si trasforma tutto ad un tratto in uno spettacolo rutilante. Lo svelamento delle finzioni (i cavalli sono finti, il morto è finto, finta la disperazione) si traduce in rinascita comica, euforia vitale, giro di corsa intorno al mondo, quando l’intero mondo è l’arena del circo. Il regista - creatore dà l’ordine di continuare a girare non fermarsi correre e correre, le stelle filanti piovono dall’alto, lo spumante innaffia i clown giocherelloni, il caos creativo imperversa. È la celebrazione più festosa mai girata della tipica euforia cinematografica felliniana. Tanto simile ad un orgasmo, quanto figlia di un rito funebre. Eros e thanatos, creatività e menzogna. Verità felliniana che distrugge, amabilmente, il mito dell’inchiesta televisiva.