Non bisogna essere timidi di fronte ad un film sfortunato e martoriato come La ragazza in vetrina. E quindi diciamolo, senza paura né vergogna: è un capolavoro incredibile, abbacinante, assoluto. E ancora: è un delitto che la carriera cinematografica di Luciano Emmer si sia interrotta dopo questo film, per riprendere un trentennio dopo. Quintessenza di una modernità coraggiosa e consapevole, gemma nascosta nel fenomenale primo lustro degli anni Sessanta italiani, l’ottavo lungometraggio del regista milanese torna allo splendore grazie ad un restauro che ha l’ulteriore merito di recuperare alcune scene tagliate dalla censura.

La ragazza in vetrina, infatti, presentava due questioni del tutto indigeste al potere democristiano ed è difficile credere che a Emmer non fosse chiara una situazione così spericolata. Al di là del tema enunciato dal titolo, c’è una prima mezz’ora assolutamente eccezionale per densità realistica ed intuizioni visive – anche grazie allo sfolgorante contribuito dell’operatore Otello Martelli – che racconta il lavoro degli emigrati italiani nei Paesi Bassi, impegnati nelle devastanti miniere di carbone ed ammucchiati in villaggi ai margini della società, nell’attesa del chimerico ritorno a casa.

È sorprendente vedere tante affinità – molto probabilmente ignare agli autori – con un altro film mitico, il belga Già vola il fiore magro di Paul Meyer (1959), che focalizza l’attenzione sul tema dei migranti economici italiani con una lucidità addirittura spietata e che sembra fare capolino nello sguardo qui pessimista di Emmer. A questa suggestione vanno aggiunti i contraccolpi della tragedia di Marcinelle del 1956, e ciò ci permette di riallacciarci all’altra grande problematica del film.

Arriviamo al sodo: era accettabile assistere alla storia di due italiani emigrati per lavoro – con il recente lutto a determinare l’inevitabile aura dei martiri – disposti a pagare delle prostitute, professioniste regolari nei Paesi Bassi (ma non nell’Italia della Legge Merlin), per trascorrere un weekend spensierato? Davvero Emmer credeva di poterla passare liscia mettendo in scena uno scafato minatore con “amica” stabile e un timido giovanotto affascinato dalla misteriosa titolare del film (un quartetto di attori strepitoso)? Davvero, nonostante la rivoluzione de La dolce vita, sperava che si minimizzassero la puntata nel bar gay o la nonchalance con cui vengono pagate le donne?

Poiché non crediamo che Emmer fosse sprovveduto, allora è giusto e necessario celebrare de La ragazza in vetrina la potenza addirittura eroica per la capacità con cui getta il cuore oltre l’ostacolo, sfidando le ipocrisie del sistema con la spudorata audacia di chi ha scelto la naturalezza come filosofia narrativa. Alla sceneggiatura ha messo mano anche Pier Paolo Pasolini, ma è impossibile non ricordare l’autore del soggetto: è Rodolfo Sonego, figlio di emigrati, veneto come il personaggio di Bernard Fresson, che non fu solo “il cervello di Alberto Sordi” ma anche il nostro migliore scrittore-viaggiatore. Lo ripetiamo: un capolavoro.