Frutto di una gestazione di circa vent’anni e a ventiquattro dalla sua uscita in sala, Quando eravamo re si dimostra ancora oggi uno dei migliori esempi di documentario sportivo della storia del cinema, testimonianza dell’epico match pugilistico valido per il titolo mondiale di pesi massimi tra Muhammad Alì e George Foreman, il primo tra due afroamericani tenutosi in Africa, nel 1974. La manifestazione assunse da subito un’enorme portata: negli anni del black pride, due atleti neri di prima categoria si contendono il più alto riconoscimento della loro disciplina nella terra dei loro avi, da cui secoli prima partirono le prime navi cariche di schiavi dirette verso l’America.

L’incontro in Zaire si inserisce infatti in quell’operazione di recupero delle origini che già la cultura nera statunitense aveva avviato nel decennio precedente e che stava raggiungendo ora il suo culmine. Ecco allora che l’evento è accompagnato da un grande concerto celebrativo che vede susseguirsi sullo stesso palco artisti neri americani e africani, tra cui B.B. King, James Brown e Miriam Makeba. Un ponte ideale tra culture vicine ma al contempo distanti, che abbraccia la politica panafricana che si stava diffondendo anche negli Stati Uniti, grazie soprattutto al pensiero di Malcolm X che, dopo il pellegrinaggio alla Mecca, comincia a parlare di una migrazione mentale e culturale verso l’Africa per riaffermare il legame con quei fratelli e sorelle.

Ma il combattimento tra i due pugili diventa uno scontro ideologico tra due modi diversi di vivere il proprio afroamericanismo. Se Foreman si mostra distaccato, freddo e concentrato esclusivamente su di sé, Alì è invece la quintessenza dell’impegno nero. Conscio del ruolo mediatico che ha, non perde occasione di portare avanti il suo messaggio e il suo esempio di afroamericano impegnato, cosciente di sé e delle proprie idee. Già noto anche in Africa per la sua conversione all’Islam e la renitenza alla leva per motivi ideologici che gli valse il titolo nel 1967, quando l’atleta arriva nel continente è già  un idolo, un modello di consapevolezza e orgoglio di appartenenza al proprio popolo.

È interessante in questo senso osservare l’uso che Alì fa dei media e in particolare della televisione. Come insegnava il suo amico Malcolm X, è importante saper sfruttare il linguaggio e i mezzi di comunicazioni bianchi, modificandone dall’interno il significato al fine di trasmettere le proprie idee. Il pugile tra battute, metafore e giochi di parole, non perde occasione per lanciare il proprio messaggio, che sia politico, sportivo, sociale, culturale. Un fiume in piena, pieno di una rabbia trasformata in carica vitale che lo rende, ancora oggi, un nobile esempio per la sua comunità e non solo.