L’Italia è un Paese in cui, se fa un film la nipote di Gianni Agnelli, finisce per fare più notizia la disamina genealogica dell’autrice che la sostanza del film. Per questo cercheremo di non soffermarci troppo sul lignaggio della regista di Magari, che di cognome fa Elkann (Ginevra Elkann), ed è la terza dei tre figli di Margherita Agnelli, sorella di John e Lapo. 

Magari è dunque il debutto alla regia di una over forty, che a diciannove anni era assistente alla regia di Bernardo Bertolucci per L'assedio (1998) e un anno dopo era al fianco di Anthony Minghella sul set de Il talento di Mr. Ripley (1999). Per poi fondare nel 2012 la casa di distribuzione cinematografica Good Films, insieme a Francesco Melzi d'Eril, Luigi Musini e Lorenzo Mieli. Presentato come film d'apertura al Festival di Locarno il 7 agosto 2019, in prima mondiale, e poiché la distribuzione nelle sale non ha potuto essere adeguatamente programmata causa pandemia, è stato ora distribuito da Rai Cinema in esclusiva su RaiPlay. 

Alma (Oro De Commarque), Jean (Ettore Giustiniani) e Sebastiano (Milo Roussel) sono tre fratelli molto affiatati, che condividono una storia familiare alquanto movimentata. Dopo la separazione dei genitori, hanno seguito la madre (Céline Sallette) da Roma a Parigi, e vivono con il suo nuovo compagno praticando la fede russo-ortodossa. A causa dell’imminente arrivo di un fratellino, si trovano a dover trascorrere un paio di settimane in Italia insieme al semisconosciuto padre Carlo (Riccardo Scamarcio). Regista spiantato e dai copioni fallimentari, quest’ultimo si mostrerà incapace di badare a sé stesso quanto ai figli, seppur spalleggiato da una affettuosa e stravagante compagna di vita e sceneggiature (una quanto mai seducente Alba Rohrwacher).

Girato seguendo il punto di vista della protagonista novenne (Alma, l’alter ego autobiografico della regista), tra soggettive oniriche e voce narrante interna Magari svela sin dal titolo la sua essenza ottativa, ossia di periodo ipotetico dell’irrealtà, esprimendo il desiderio impossibile per antonomasia, quello di una bambina di vedere riunita la propria famiglia d’origine, e ricostituita una coppia genitoriale oramai dissolta. Così tra fughe abbandoniche da nonne mai frequentate (un prezioso cammeo di Florinda Bolkan), prime birre romane con amicizie adolescenti, piccoli furti al mercatino delle pulci, festicciole condite da spinelli e una colonna sonora totalmente anni ‘90 (Sarà perchè ti amo, Se mi lasci non vale), gli occhi di Alma vedono poco a poco affiorare la dissoluzione del suo stesso auspicio, imparano a riconoscere i segni inequivocabili di una realtà che lascia spazio al più consapevole e adulto sentimento del rimpianto.

Un romanzo di formazione, quindi, che mescola un cast davvero efficace (Scamarcio nei panni del padre incompetente e Rohrwacher come sua aiutante nel ruolo genitoriale danno vita ad un insolito, ma compatto, amalgama attoriale) ad una scrittura non sempre brillante e a tratti prevedibile (capace però di regalare piccole perle come l’imitazione scamarciana di Lino Banfi), e una fotografia virata al seppia con effetto polaroid. Probabilmente il risultato finale non è scevro da un sentimento che molto somiglia alla noia, né possiamo negare che paia alquanto eccessiva, rispetto alla sostanza, la forma eclatante che ha concesso a questo esordio addirittura una apertura locarnese.

Eppure restano da rilevare le buone intenzioni (l’autobiografismo cinematografico come cura dai propri fantasmi) e l’interesse sociologico irrimediabilmente suscitato nel momento in cui a “lavare i panni sporchi” è la discendente di una delle famiglie che ha più inciso sulla storia economica e sociale del nostro Belpaese.