Si chiama A Chiara il nuovo film di Jonas Carpignano, ancora una volta ambientato a Gioia Tauro come i precedenti Mediterranea e A Ciambra. C'è un sapore di dedica, di omaggio, per un personaggio che sta per altre quindicenni come lei: accompagnata da tanta musica arrabbiata ma ostentatamente pop, a suggerire uno stato d'animo comune, Chiara si muove nel suo mondo quieta e assertiva, arrogante nelle competizioni canore e prepotente con chi osa invadere la zona del suo gruppetto di amiche, riscaldata da legami familiari fortissimi. Poi il suo adorato padre improvvisamente sparisce, e nessuno vuole dirle nulla perché “non può capire”, facendole sperimentare un'omertà endemica che prima non aveva avuto modo di sperimentare.

Carpignano, newyorkese di padre italiano (nonché nipote di Luciano Emmer), ha conosciuto le terre calabresi lavorando su un progetto degli esordi, ha deciso di trasferirvisi per narrare la storia di Mediterranea, e lì sinora è rimasto. Nel frattempo il furto della sua auto ha fatto sì che conoscesse, nel tentativo di riavere il maltolto, il quartiere rom della Ciambra, e ciò lo convincesse a metterla al centro di un film.

Swamy Rotolo, la protagonista di A Chiara, è poi una sua vecchia conoscenza da quando era solo una bambina di nove anni, eppure da subito gli era parsa perfetta per interpretare l'adolescente di cui stava scrivendo in quel momento. È un universo che si allarga man mano, quello della (per ora) trilogia di Carpignano, sia all'interno del stesso mondo finzionale, con personaggi e luoghi che ricorrono da una pellicola all'altra, sia nella vita reale delle nuove esperienze che continuano ad affascinare e motivare il regista.

Carpignano si comporta come un etnografo che ha deciso che la costruzione finzionale di storie, talvolta paradigmatiche come questa di Chiara, talaltra dei semi-reenactment di vicende autobiografiche come in Mediterranea, possa essere una chiave di comprensione della realtà non meno puntuale del documentario. E di stupefacente naturalezza sono le performance che è riuscito a ottenere dai suoi attori non professionisti, con un metodo di lavoro molto personale che spiega in buona parte i risultati raggiunti: la famiglia di Chiara sullo schermo è la vera famiglia di Swamy Rotolo, la scena della cena è stata girata facendo attenzione all'orario giusto per mettersi a tavola, e quella della festa è stata realizzata allestendone una vera e filmando poi qua e là per tre giorni. Il regista procede abitualmente così, innestando snodi narrativi pianificati fra sequenze d'ambiente all'impronta che comunemente contribuirebbero solo a settare lo sfondo delle vicende, e che nei suoi film diventano parte fondante della costruzione del punto di vista. 

Carpignano si incolla ancora una volta con la cinepresa alla testa della sua protagonista, seguendola passo passo coi movimenti malfermi della camera a mano a restituire la sua verità. Non è uno stilema inedito nel cinema realista italiano contemporaneo, meno comune però è il suo utilizzo per puntare non allo straniamento del soggetto, ma all'immersione vitalistica nel suo mondo: quelli del regista sono tuffi incuriositi nell'ambiente sociale calabrese, non espressioni di un ripiegamento del singolo rispetto allo status quo. È un approccio partecipante e partecipato, e l'empatia verso chi è oggetto del suo sguardo è evidente. Non si manifesta però come approvazione o indulgenza rispetto alla devianza dalle norme, ma come volontà di sospendere il giudizio.

Tanto cinema realista è basato sulla suddivisione in vittime e carnefici, o tutt'al più su come gli uni possano trasformarsi negli altri. Nel cinema di Carpignano sembrano esistere solo relazioni umane e libero arbitrio del singolo, anche quando una stigmatizzazione di certi fenomeni sociali parrebbe naturale e pedagogica. Chissà che non sia stato proprio questo ad affascinare il suo mentore Martin Scorsese, che ha sempre avuto al centro dei suoi interessi le strutture e i rituali sociali soverchianti l'individuo, financo nelle commedie come Fuori orario o i film in costume come L'età dell'innocenza. Carpignano si muove fra gli stessi dilemmi ma sembra avere maggiore speranza, e sempre più nel tempo confida nella forza interiore dei suoi personaggi, e nel valore della scelta.