La candidatura italiana di A Ciambra, come film che rappresenterà il nostro Paese agli Oscar (nella speranza di finire nella lista dei veri candidati per marzo 2018), è molto più che un riconoscimento puramente dimostrativo. Dopo la sfortunata storia di Non essere cattivo (che per molti motivi non poteva fare molta strada), il film di Jonas Carpignano è probabilmente ancora più opportuno del pur significativo Fuocoammare per correre agli Academy Award, e rappresenta un'opzione estetica identitaria.
In questi anni, infatti, la categoria di "cinema del reale" ha, sì, compattato le azioni poetiche di molti meritevoli registi del nostro cinema, ma anche rischiato di costruire una gabbia formale, una nozione fumosa, e un limite retorico alla ricchezza di molti autori. Non tutti i registi del cinema del reale sono convincenti, non tutte le operazioni narrative appaiono sensate. Diversamente, A Ciambra colpisce proprio per la maturità stilistica e soprattutto per le modalità scelte dentro all'approccio cinema-realista.
Intuendo assai meglio di altri di che cosa era davvero fatto il cinema rosseelliniano (le contraddizioni geniali tra la scrittura forte di Rossellini e Amidei, e i materiali rudi della rappresentazione), Carpignano ha costruito una storia di scrittura potente lavorando con l'umanità dei non professionisti e con la famiglia Rom di cui si narrano le vicende. Tutto il film segue le tappe ben consolidate del bildungsroman, sfiorando elementi noir e melodrammatici che non devono essere spiaciuti al produttore esecutivo Martin Scorsese: A Ciambra ha qualcosa a che spartire, dal punto di vista etnografico e cinefilo, con Mean Streets.
Paradossalmente, anche se Carpignano supera di slancio - come è stato detto - gli steccati più evidenti tra finzione e documentazione, non gioca mai ambiguo e sporco. Il suo è un film di sceneggiatura, con una narrazione in tre atti, costruzione di personaggi e rappresentazione di un universo simbolico costruito ad arte. Nessuno ne può mai dubitare. Al tempo stesso, tutto il resto proviene da elementi di autentiticità altrettanto evidente, tanto penetrante da lasciare storditi nella parte iniziale del film.
A dirla così, sembra banale, persino corrivo, eppure l'originalità nasce proprio dall'accostamento di due pratiche gestite in maniera diametralmente opposta (scrittura e set), quando invece fino ad ora sembrava opportuno armonizzare l'uno e l'altra, o dissimulare l'aspetto più finzionale (in questo senso, Carpignano sembra dialogare più con Leonardo Di Costanzo che con Gianfranco Rosi o Alice Rohrwacher).
Ecco perché, forse, il suo film meglio di altri è un incunabolo da mostrare all'estero. Dopo un primo insuccesso nelle sale, è A Ciambra il titolo su cui la cultura cinematografica italiana dovrebbe scommettere, a dispetto della sordità del pubblico (per lo più inavvertito e ignaro), per mostrare la gioielleria nazionale.