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“A Ciambra”, diversi per antonomasia
Qui in redazione A Ciambra è proprio piaciuto. E ci torniamo spesso sopra. La bellissima pellicola di Jonas Carpignano è prima di tutto una apologia del neorealismo ritrovato, un neorealismo moderno fatto di commistione fra ciò che è reale (i protagonisti, l’intera famiglia Amato, sono presi dalla strada) e ciò che è costruito (la sceneggiatura scritta battuta per battuta), in un continuo gioco di specchi in cui lo spettatore è catturato, ma presto smette di domandarsi quale sia il confine tra la vita vera e la narrazione.
“A ciambra” come culla del cinema italiano
La candidatura italiana di A Ciambra, come film che rappresenterà il nostro Paese agli Oscar (nella speranza di finire nella lista dei veri candidati per marzo 2018), è molto più che un riconoscimento puramente dimostrativo. Dopo la sfortunata storia di Non essere cattivo (che per molti motivi non poteva fare molta strada), il film di Jonas Carpignano è probabilmente ancora più opportuno del pur significativo Fuocoammare per correre agli Academy Award, e rappresenta un’opzione estetica identitaria.
Riti di passaggio: “A Ciambra”
Dopo il successo di critica del suo lungo d’esordio, Mediterranea, Jonas Carpignano rimane fedele ai suoi personaggi, ai suoi ambienti, alla sua precisa e personale idea di cinema. Un cinema della macchina a mano, della fotografia sporca, del pedinamento e dell’aderenza al reale, da raccontare con lo sguardo lucido e disincantato di chi non vuole giudicare, ma portare alla luce una porzione di mondo dimenticata. E si dà il caso che questa porzione di mondo sia la “Ciambra”, il campo rom nei dintorni di Gioia Tauro dove il giovane regista italoamericano si trasferisce e si apposta, in attesa di catturare un microcosmo con i suoi abitanti e le sue leggi.