The Nightingale di Jennifer Kent è chiacchierato ben al di là dei suoi effettivi meriti e demeriti (vincitore comunque di due premi a Venezia 2018), o dell'essere un'opera seconda piuttosto attesa dopo il successo di Babadook (2014). Film d'epoca aussy ma soprattutto revenge movie al femminile, come tuonava Hollywood Reporter l'unico in concorso diretto da una donna e così via, fino all'insulto sessista alla fine della prima proiezione stampa..non ne parleremmo se non entrasse nel merito del film, che pesca dal mazzo quello che nel predecessore era un nodo sotterraneo - la travagliata ridefinizione del rapporto fra i sessi nel microcosmo di una madre sull'orlo del collasso nervoso, un babau che può stare (anche) per un'idea cancerosa di cosa debba essere identità maschile e un dolce piccolo uomo che rischia a sua volta di trasformarsi in mostro.

Finchè il gioco regge il femminismo di The Nightingale non solo non è accessorio o pretestuoso, ma mette le ali ai piedi dello spettatore, e quel che è incredibile, forse più uomo che donna. Parte in quarta con l'adunata dei soldati inglesi e il sergente che vomita loro addosso un campionario di insulti de-mascolinizzanti ("girl!", "Miss Molly!", "cunt!"). L'He-Man, il vero uomo di cui è qui epitome il cattivissimo Sam Claflin, non è mai stato tanto respingente, tanto poco esemplare. Scrittura e cast hanno gioco nell'affiancare a questo modello quello incarnato dal marito della protagonista, introdotto inizialmente nel contesto di un quadro familiare idilliaco che ha ripensando a Babadook sapore di utopia, poi testimone impotente delle angherie subite dalla moglie.

Il cuore maschile, anche quello che batte per Bronson e Gene Hackman, non è pronto a una simile stilettata, disgustato com'è dai modi dei soldati, istintivamente empatico nei confronti della protagonista, ma soprattutto ferito al ventre morbido di quelle protettività e sensibilità che costituiscono per lui una conquista del nostro tempo non inferiore a quelle femminili. All'inizio insomma è davvero vendicaci tutti, uomini e (naturalmente, prima di tutto) donne. Questo da solo non può che valere una commossa nota di merito sul curriculum dell'autrice.

Al netto dell'incapacità di replicare il gelido controllo dell'esordio in ogni aspetto formale e tematico - con un secondo tempo che soffre di chissà che brutta malattia degenerativa, fino a un finale sinceramente risibile - The Nightingale lo supera probabilmente per la cogenza, l'insostituibilità di questi elementi. Senza il suo respiro di racconto storico ad esempio, faticherebbe a fare uscire i demoni dallo scantinato di Babadook; oppure, The Nightingale non può non essere un film australiano. Della sua terra (e della sua terra al cinema) la regista mostra di conoscere assai bene la metafisica, il grigio notturno del deserto che è il perfetto correlativo oggettivo del senso di gelido vuoto e d'impotenza; ma sfrutta anche le intuizioni "americane" di suoi connazionali come Nick Cave e John Hillcoat (sceneggiatore e regista del western La proposta) per fare del suo film un crocevia di frontiera e post-secessionismo, con gli Inglesi predatori come i coloni dell'Ovest, una protagonista con un soprannome - "L'usignolo" - da reginetta del Blues anni '30 alla Ma' Rainey, e gli aborigeni che fanno ora le veci degli indiani, ora degli afroamericani impiccati ai rami degli alberi del Sud in Strange Fruit. Poi, si diceva, davvero un po' troppo va storto, ma ce n'è più che a sufficienza da ruminare nell'attesa - non meno incuriosita - del prossimo film.