Quando nel 1972 debutta alla regia con Buck and the Preacher (titolo originale di Non predicare...spara!), Sidney Poitier è all’apice del suo successo: un Oscar alle spalle per I gigli nel campo (1964) – primo attore afroamericano a ricevere tale riconoscimento – e alcuni tra i più emblematici ruoli del cinema antirazzista anni Cinquanta e Sessanta. Se Harry Belafonte rappresenta il lato più ambiguo e pulsionale dell’afroamericano (l’amante geloso Joe di Carmen Jones, il cantante fallito complice del rapinatore Bruke in Strategia di una rapina), Poitier è il “buon nero” di Hollywood per antonomasia: giovane, colto, educato, intelligente e di bell’aspetto. In definitiva la rassicurante rappresentazione di un ceto ormai integrato nella società statunitense in evoluzione, che in virtù di una lotta pacifica e costante riesce a superare le ritrosie permanenti e raggiungere i propri obiettivi.

È chiaro dunque che il film d’esordio – che lo vede anche interprete affianco proprio a Belafonte – rappresenti uno spartiacque nella sua carriera, una netta cesura che rimette in gioco l’uomo e il personaggio mostrandone un lato nascosto, latente impulso a una piena autonomia e all’autodeterminazione che trova un corrispettivo ideologico e culturale nel coevo clima militante afroamericano. A pochi anni dagli omicidi di Malcolm X e Martin Luther King jr., nel pieno della persecuzione dei nascenti leader delle Pantere Nere e il conseguente sistematico smantellamento del Partito da parte delle istituzioni e dei loro rappresentanti, la realtà nera coeva non è tanto dissimile dal Far West. Un tempo in cui venivano gettate le basi di una nuova società e, proprio per la fragilità del sistema, illegalità e prevaricazione erano dominanti sempre a danno dei più deboli ed emarginati.

Non è allora casuale che Poitier scelga di cimentarsi con il western, genere per eccellenza dedicato all’elegia della nazione e alla celebrazione del suo mito fondativo, mostrandone però un altro aspetto, più oscuro, violento e volutamente omesso dalla narrazione dominante a partire dalla rappresentazione di cowboy neri, storicamente stimati come un quarto dei mandriani statunitensi ma totalmente assenti dall’immaginario hollywoodiano. Le peripezie dell’ex-sergente Buck (il “nero imbroglione”, nello slang razzista bianco) e del Predicatore – plausibili rimandi al passato degli storici leader Malcolm e Martin – impegnati nel condurre un gruppo di schiavi liberati esuli (gli exodusters) dalla Louisiana al Kansas proteggendoli dai marauders assoldati da proprietari terrieri del Sud per convincerli a tornare a lavorare nei loro possedimenti, sono un chiaro riferimento alla condizione dei neri americani del tempo.

Una volta concessi loro i diritti agognati ed esigiti, così come la libertà dopo la Guerra Civile, la società statunitense continuava a opprimerli impudentemente cercando di ostacolarne il naturale progresso non più a livello legislativo ma su quello effettuale del quotidiano. Basti pensare alla sistematica oppressione della polizia (qui rappresentata dagli aiutanti dello sceriffo che lo eliminano perché non disposto a perseguire uomini liberi e innocenti) o le politiche abitative e sulla proprietà che immancabilmente venivano a danneggiare i ceti meno abbienti. Come sostiene la saggia Ruth, compagna di Buck e la sola in grado di aprire gli occhi ai due uomini “la guerra non ha cambiato nulla. Non ci daranno niente. Neppure la libertà. È come un veleno intriso nella terra”: una triste constatazione che non offre alternativa se non quella di un’indipendenza da difendere se necessario anche con le armi in pugno.

Vedere Poitier e Belafonte fianco a fianco assaltare una banca per recuperare i soldi sottratti indebitamente dai persecutori ai viaggiatori neri, uccidere senza scrupolo gli aggressori per salvare la pelle propria e altrui fino ad allearsi con gli indiani per sgominare gli oppressori bianchi – allusione a un ideale fronte misto delle minoranze etniche su suolo nazionale? – è un gesto artistico di grande valore allegorico. Come a dire che ormai la misura è colma. “Si temi l'ira dei mansueti perché essi riverseranno in voi tutto ciò che hanno subito”.

Un atto simbolico difficile da accettare per un pubblico abituato a canoni narrativi e gerarchie di ruolo diversi e fortemente standardizzati. La critica non accolse con particolare favore la pellicola, elogiandone il ritmo, l’intrattenimento e l’ironia di fondo, ma stroncandone i contenuti più rivoluzionari e innovativi. È chiara una certa stereotipia nella caratterizzazione dei personaggi, ma questo fa parte del gioco e rende il film un riuscito raro esempio di blaxploitation di qualità dove la leggerezza è portatrice di un messaggio forte e incisivo, quasi a far abbassare la guardia allo spettatore per colpirlo con ancora più efficacia.

Lo suggerisce una delle scene più significative della pellicola, quando il Predicatore improvvisa un sermone volutamente sopra le righe contro la fornicazione per i marauders nel bordello. Facendo il buffone con balletti e smorfie i banditi si distraggono favorendo così l’entrata a sorpresa di Buck nel locale con le armi spianate. È il celamento di sé proprio dello schiavo, che si dimostra servile e accondiscendente verso il padrone per conservare interiormente quella che è la sua vera natura. Un esercizio poi assurto a pratica intellettuale tramite Signifyin’, Double Talk e altre forme di resistenza fisica, psicologica e culturale afroamericana.