Il documentario di Erik Gandini affronta il tema delicato del lavoro in maniera originale, concentrandosi sul suo aspetto più spirituale, sul ruolo che esso ricopre nella vita e nei valori delle persone. Il regista allarga il perimetro della sua indagine, dagli Stati Uniti alla Corea del Sud, dal Kuwait all’Italia, alla ricerca di racconti e testimonianze di vita vera da un mondo dove la produttività è diventata un’ossessione.

Con l'ausilio di intellettuali e filosofi come Noam Chomsky o Elizabeth Anderson, ma anche di personaggi dalla dubbia moralità come un mental coach americano o una ricca ereditiera, Gandini raccoglie riflessioni che hanno lo scopo di regalarci lo spirito di un momento storico o meglio la sua cartella clinica. Il merito del film è proprio quello di non dare risposte, ma di costringere lo spettatore a porsi delle domande, a mettere in discussione i suoi principi.

After Work, con un’estetica pop e un ritmo cadenzato che ricorda quello delle macchine nelle fabbriche, mostra come il lavoro abbia assunto un ruolo centrale nelle nostre vite giungendo persino a rappresentarne lo scopo ultimo. Il sistema capitalistico è diventato così pervasivo da mutare lo spirito stesso dell’essere umano, plasmandone volontà e desideri, giungendo ad un grado di alienazione così preoccupante che siamo noi stessi a costringerci al lavoro senza il bisogno di una coercizione esterna.

In questo senso è paradigmatico l’esempio della Corea del Sud dove il governo è dovuto intervenire per impedire alle persone di restare troppo in ufficio e per salvaguardarne la salute mentale, arrivando a mandare in arresto i computer ad un determinato orario, o quello degli Stati Uniti in cui le persone si rifiutano di andare in ferie.

Affermare che il documentario sia semplicemente un’indagine riguardante il tema del lavoro è riduttivo. Il lavoro è più uno stimolo per dire dell’altro, il tema centrale sembra piuttosto essere di natura esistenziale: che significato diamo alla nostra vita? Cosa stiamo facendo del nostro percorso? In tal senso è esemplificativa l’immagine del parco di cui si prende cura con attenzione maniacale il giardiniere intervistato; il regista vi si sofferma a lungo con diverse inquadrature dall’alto che evidenziano le geometrie del giardino, le sue regolarità.

Quella razionalità completamente fine a sé stessa a cui il giardiniere piega la natura non è altro che lo specchio dell’irreggimentazione alla quale l’uomo stesso si costringe come spaventato dalla possibilità di una vita in cui sia libero di scegliere, di darsi autonomamente una forma.

Questa fuga dalla libertà, per citare il titolo del famoso libro di Erich Fromm, l’impossibilità di concepirsi al di fuori di uno schema calato dall’alto, viene segnalata dall’autore come un dato di fatto comune in tutto il mondo ed è legata a doppio filo con la questione dell’identità. L’identificazione col proprio mestiere ormai è quasi considerata normalità; viene sempre più spontaneo rispondere alla domanda “chi sei?” con il ruolo che si pensa di ricoprire nella società.

Siamo di fronte ad un vero e proprio abisso chiamato etica del lavoro all’interno del quale l’umanità sta sprofondando senza rendersene conto finendo per associare inconsapevolmente la propria identità ad un mestiere. L’obiettivo al quale dunque tende Gandini è proprio quello radicale di costringere il pubblico a guardarsi dentro, a riconoscere il meccanismo di dominio che, alla stregua di un morbo, ha preso possesso delle nostre coscienze e a spingersi oltre il lavoro, come, d’altronde suggerisce il titolo del film.

Anche alla luce degli sviluppi della tecnica che grazie all’intelligenza artificiale condurrà in breve tempo alla scomparsa della maggior parte degli impieghi, affrontare questo genere di interrogativi è diventato prioritario. Che succederà quando la maggior parte dei lavoratori sarà rimpiazzata da una macchina e masse sempre più imponenti di disoccupati affolleranno i paesi di tutto il mondo? Riuscirà l’umanità a scoprire la sua essenza offuscata dal velo dell’ideologia?

Come detto After Work non offre risposte, ma ha il merito schiettamente filosofico di scavare il solco del dubbio su quella che consideriamo a torto normalità.