Esistono, nel cinema, alchimie che non avrebbero potuto dare in nessun altro modo gli stessi risultati, come la proficua e turbolenta collaborazione fra Werner Herzog e Klaus Kinski. Una pagina di storia del cinema che è un vero e proprio scontro fra titani: da una parte, un regista tra i più importanti esponenti del cosiddetto Nuovo Cinema Tedesco (insieme ad altri nomi illustri come Fassbinder e Wenders), un visionario, uno sperimentatore; dall’altra, un attore completamente folle nella vita e sul set, ma che proprio per la sua pazzia e il suo furore artistico ha saputo regalarci le performance che conosciamo.

Il cinema è Arte, e come tale si sottrae a ogni logica e certezza matematica, eppure una cosa è certa: quei cinque film di Herzog non sarebbero stati uguali senza Kinski, e Kinski non avrebbe dato gli stessi risultati con nessun altro autore. Certo, il regista ha diretto molti altri film senza il suo attore-feticcio, e quest’ultimo ha lavorato con molti altri registi, ma quei cinque film sono un unicum, qualcosa di assoluto e irripetibile. A tal proposito, è particolarmente illuminante il documentario Kinski, il mio nemico più caro (1999), che Herzog ha diretto dopo la morte dell’attore, e nel quale sono messe in scena tutte le traversie lavorative dei film: la follia di Kinski (sul set come nei personaggi interpretati), il suo comportamento aggressivo, le smanie da primadonna, il delirio di onnipotenza nel volersi quasi sostituire al regista; ma anche la pazzia e la visionarietà di Herzog, che in un’occasione minacciò Kinski di morte; e al contempo un bisogno ossessivo reciproco, come se il regista fosse l’unico in grado di incanalare la sua follia in un furore recitativo senza eguali; un sodalizio artistico scandito da aspre rivalità ma al contempo da una sorta di inseparabilità, quasi che i due si completassero e fossero l’uno necessario all’altro.

Il primo film che vide la collaborazione fra Herzog e Kinski fu Aguirre, furore di Dio (1972), un’opera seminale nella filmografia e nella poetica del regista; seguirono Nosferatu, il principe della notte e Woyzeck, prima di Fitzcarraldo e Cobra Verde, che insieme ad Aguirre formano un’ideale trilogia, per l’ambientazione esotica e per la messa in scena di imprese impossibili, ossessioni, sfide alla natura e ai limiti dell’uomo. Nel 1972, Herzog veniva dallo sperimentalismo estremo di film come Anche i nani hanno cominciato da piccoli e Fata Morgana, cioè il primo film a mostrare quell’ambivalenza fra documentario e fiction che sarebbe stata alla base di quasi tutta la filmografia herzoghiana. All’epoca, il Nostro non era ancora un regista famoso come sarebbe stato in seguito, era quello che oggi definiremmo un “indipendente” (un termine che però all’estero ha un’accezione in parte diversa rispetto a quella italiana) e si produceva da sé i suoi film con la Werner Herzog Filmproduktion (cosa che in parte avrebbe continuato a fare anche in seguito): motivo per cui, poteva contare su budget non elevati e su un sistema produttivo che era al di fuori del circuito mainstream, ma in cui si trovava pienamente a suo agio proprio in virtù del suo stile libero, sperimentale e visionario – Herzog era un vero e proprio pioniere, un rivoluzionario della Settima Arte.

Stando alle sue parole, l’idea per Aguirre, furore di Dio gli venne da una breve lettura sul personaggio storico di Lope de Aguirre, in seguito alla quale scrisse soggetto e sceneggiatura, mescolando personaggi realmente esistiti con altri inventati o messi fuori posto – per esempio, il frate a cui è affidata la narrazione è esistito realmente ma pare non abbia preso parte alla spedizione in oggetto. Aguirre si configura così come una sorta di “falso storico”, un romanzo mitologico, un poema epico (o meglio, anti-epico) dove realtà e finzione si mescolano indissolubilmente, in virtù di quella libertà concessa dal cinema e che rende l’Arte svincolata da ogni pretesa di rigore storiografico, perché il cinema non è un libro di Storia.

La vicenda, ambientata nel Sud America durante l’epoca dei Conquistadores spagnoli, ha inizio nel dicembre 1560, quando una spedizione guidata da Gonzalo Pizarro tenta faticosamente di aprirsi la strada nella foresta amazzonica, in cerca del mitologico El Dorado. Dopo essersi trovati bloccati nella giungla, il comandante decide di mandare in avanscoperta quaranta dei suoi uomini, che dovranno discendere il Rio delle Amazzoni a bordo di alcune zattere per fare scorta di viveri e cercare traccia della leggendaria città d’oro. Don Pedro de Ursùa è a capo della nuova spedizione, della quale fanno parte fra gli altri il folle e violento condottiero Lope de Aguirre (Klaus Kinski), il frate Gaspar de Carvajal, il nobile Don Fernando de Guzman e due donne – Inez, la moglie di Ursùa, e Flores, la figlia di Aguirre. Il gruppo discende il fiume tra le insidie della natura e la minaccia degli indios che popolano la foresta, i quali non si fanno mai vedere ma manifestano la loro presenza scagliando frecce e dardi avvelenati verso gli invasori.

A causa delle avversità incontrate, Ursùa decide di tornare da Pizarro, ma la maggior parte degli uomini – capeggiati da Aguirre – si ammutina e sceglie di proseguire nella folle impresa con la violenza, per cui chi non è d’accordo viene ucciso o fatto prigioniero. Don Fernando de Guzman è proclamato imperatore, in quella che è una vera e propria ribellione alla Corona spagnola, e Lope de Aguirre assume il ruolo di comandante. I componenti della spedizione vengono decimati dagli indios e dalle malattie: l’unico sopravvissuto è proprio Aguirre, che in preda al delirio va però incontro a morte certa a bordo della zattera.

Si accennava in precedenza all’importanza capitale che Aguirre, furore di Dio riveste nella poetica herzoghiana, e lo fa in molteplici accezioni indissolubili fra loro, rivelandosi un’opera seminale per molte di quelle che verranno: nel nostro film, vediamo la rappresentazione di una sfida impossibile dell’uomo verso la natura e l’’affermazione di un superomismo nietzschiano in una sorta di ribellione dell’individuo verso Dio (elementi che avvengono nella diegesi ma anche sul set); e vediamo perciò anche il cinema come Arte titanica ed estrema, alle prese con una lavorazione in mezzo a un ambiente ostile e quasi impossibile (le riprese furono realizzate interamente in loco, con molte comparse prese dalla popolazione indigena); infine, ma non per ordine di importanza, vediamo il superamento di quella rigida barriera che esisteva prima di allora fra cinema di finzione e documentario.

Il cinema di Werner Herzog è al contempo un oggetto multiforme, in continuo mutamento, impossibile da ingabbiare in rigide etichette, non ascrivibile a un unico stile, e oggetto di continue sperimentazioni: c’è quello più legato all’immaginario epicorico tedesco come L’enigma di Kaspar Hauser, Cuore di vetro (girato con quasi tutti gli interpreti in stato di ipnosi) e l’allucinato Woyzeck (tratto dal testo di Georg Büchner, e ancora con Kinski protagonista); c’è la rivisitazione dell’Espressionismo, il genere cinematografico per eccellenza della Germania, rielaborato dalla “Nouvelle Vague” tedesca, per cui Herzog rilegge il Nosferatu (1922) di Murnau con l’affascinante e sepolcrale Nosferatu, il principe della notte, dove Kinski offre un’altra performance incredibile e trasformista; c’è l’epica estrema di Aguirre, furore di Dio, Fitzcarraldo e Cobra Verde, quella cioè che stiamo trattando, e che farà scuola anche per molti futuri registi – pensiamo a film come Mission di Roland Joffé o Apocalypto di Mel Gibson, due opere dal gusto inequivocabilmente herzoghiano; e c’è la vasta produzione documentaristica, che talvolta sfocia però nel cinema di finzione e viceversa – pensiamo alla sfida alla natura di Grido di pietra o alle immagini visionarie di Apocalisse nel deserto.

Lo vediamo già nel suddetto e seminale Fata Morgana, un documentario di ambientazione africana che viene narrato come una sorta di metafora della creazione del mondo, mentre i paesaggi, i personaggi e gli animali si trasformano poco alla volta da oggetti ripresi in senso naturalistico a elementi deformati secondo una precisa volontà dell’autore, che si fa demiurgo di una realtà “altra” rispetto a quella oggettiva – e così sarà in molti dei successivi film e documentari di Herzog. In Aguirre succede un po’ un processo simile, ma in senso inverso: una storia di fiction, con una vicenda precisa e personaggi di finzione che agiscono nella concezione classica del cinema, lascia spesso il passo a inquadrature sull’Amazzonia che hanno l’inconfondibile gusto del documentario, per cui il paesaggio diventa un vero e proprio protagonista – il che sarà un elemento ricorrente in quasi tutto il cinema di Herzog.

Basti pensare all’incipit, con la spedizione – composta dai Conquistadores spagnoli e dagli schiavi indios in catene – che discende lungo una ripidissima montagna immersa nella nebbia, mentre le musiche gravi e ricche di vocalizzi dei Popol Vuh fanno da contrappunto. Un inizio che preannuncia quanto vedremo lungo tutto il film: lunghe inquadrature e piani-sequenza (in contrasto coi primi piani dei protagonisti, in particolare il delirante Kinski) sulla foresta, il fiume e gli animali, accompagnate dalle musiche o dai suoni diegetici della natura, in una continua alternanza fra stile cinematografico classico e andamento documentaristico, per cui il ritmo – grazie anche a un preciso utilizzo del montaggio – è volutamente lento, talvolta estenuante ed ossessivo come la storia narrata. Aguirre è innanzitutto un film di immagini, prima ancora che di trama (la sceneggiatura fu scritta, pare, in modo abbastanza tribolato), per cui – come nei futuri film e documentari di Herzog – si susseguono immagini visionarie, affascinanti, deliranti e apocalittiche, come la zattera invasa dalle scimmie o l’allucinazione collettiva della barca issata in cima agli alberi.

Perché Aguirre è innanzitutto la storia di un’ossessione: Lope de Aguirre, come e più degli altri Conquistadores, è ossessionato dalla bramosia di denaro e soprattutto di Potere, così come l’avventuriero Fitzcarraldo insegue per tutta la vita il sogno di portare la musica lirica nell’Amazzonia, e il bandito Cobra Verde aspira a diventare il viceré di uno Stato africano. Tutte imprese destinate al fallimento, o a una riuscita soltanto illusoria ed effimera: Aguirre che si lascia trasportare dalla zattera verso il Nulla e la morte è l’equivalente del futuro Cobra Verde, che muore tentando di spingere una barca verso il mare; va un po’ meglio a Fitzcarraldo (non a caso, il personaggio più positivo e meno odioso dei tre), il quale, pur fallendo nella sua impresa, riesce a trasportare una nave oltre la montagna, e a farvi imbarcare un’orchestra che si esibisce in un concerto lirico sul Rio delle Amazzoni.

Per Aguirre, invece, c’è soltanto follia, nichilismo e morte, in una giungla ostile e infernale, dove gli indios sono inizialmente come i Tartari del romanzo di Dino Buzzati: una minaccia continua ma invisibile, che diventa però concreta quando gli uomini imbarcati sulla zattera iniziano ad essere bersaglio delle frecce mortali scagliate dalla riva, o quando i naviganti trovano il villaggio con i resti di precedenti esploratori mangiati dai cannibali. Vedendo il film, è impossibile non pensare ad Apocalypse Now – la discesa lungo il fiume, la foresta che nasconde insidie mortali, la ricerca di un regno leggendario, l’ossessione diegetica e cinematografica: e non è un caso, visto che in un’intervista rilasciata a Gerald Peary, Francis Ford Coppola afferma di essersi ispirato proprio al film di Herzog, anche se è innegabile che entrambe le pellicole (come sarà anche Fitzcarraldo) sono derivative dal romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad, e vi si possono trovare echi anche dal romanzo L’uomo che volle farsi re di Rudyard Kipling.

L’ossessione di Aguirre è lo specchio dell’ossessione cinematografica di Herzog, per cui la storia narrata e le avventure del set formano un tutt’uno, con le riprese condotte in situazioni naturali estreme: girato con un budget ristretto, fra le ostilità della giungla e del fiume, la realizzazione di Aguirre diventa un’opera titanica come l’impresa compiuta dei protagonisti – e il budget più elevato renderà ancora più gigantesca e drammatica la lavorazione di Fitzcarraldo, con la nave trasportata lungo la montagna – un’impresa che tende all’assoluto, volendo sfidare i limiti della natura e dell’uomo, e lanciando una sorta di sfida a Dio. Quella sfida che Lope de Aguirre lancia al Creatore, in particolare nel delirante dialogo dove si autoproclama “il più grande traditore”, “il furore di Dio”, colui che può decidere della vita e della morte del mondo intero, e che può in seguito dare vita a una nuova stirpe, in quell’allucinante superomismo nietzschiano di cui parlavamo in precedenza. Aguirre, più di tutti gli altri Conquistadores, è un folle, un personaggio crudele verso gli altri, un uomo che nessun altro attore avrebbe potuto interpretare con la spaventosa pazzia di Kinski e col suo sguardo alienato e crudele – ed Herzog, nel suddetto documentario sull’attore, ammette di averlo talvolta provocato ad hoc per dare vita a una recitazione così spinta all’eccesso.

Perché Aguirre, furore di Dio, così come le altre due opere dell’ideale trilogia, è un film volutamente eccessivo, tanto nelle immagini quanto nel narrato: come nei suoi primi film, Herzog utilizza il formato sperimentale del “quattro terzi” (il classico formato quadrato) e una fotografia molto satura e corposa, che valorizza i colori della giungla e gli sfarzosi vestiti degli spagnoli, e non lesina sulla violenza (gli uomini trafitti dalle frecce, l’impiccagione di Ursùa, i nativi uccisi con la spada, il soldato ribelle decapitato), mentre a fare da contrappunto alle immagini ci pensano i vocalizzi ossessivi dei Popol Vuh oppure i suoni della natura. Nella sua folle impresa, Lope de Aguirre si circonda di una “corte dei miracoli” popolata da personaggi grotteschi e sopra le righe, interpretati perlopiù da attori sudamericani: Don Pedro de Ursùa (Ruy Guerra), un capo senza carisma, la moglie Inez (Helena Rojo) che scompare all’interno della giungla, il frate (Del Negro) che afferma l’impossibilità di convertire i “selvaggi” alla religione cristiana, e Don Fernando de Guzman (il tedesco Peter Berling, l’unico altro attore europeo oltre a Kinski), una sorta di imperatore-fantoccio nelle mani di Aguirre, una figura quasi caricaturale che si immedesima sempre più nella parte fino alla morte misteriosa sulla zattera.

Ma è Aguirre, col suo carisma magnetico, ad attirare quasi tutta l’attenzione: la sua follia è l’ossessione di un uomo che voleva conquistare un regno, ma è anche l’ossessione dell’uomo occidentale e della nostra civiltà, che vuole spingersi oltre i propri limiti per assurgere all’impossibile, trovandosi invischiato nel cuore di tenebra dell’animo umano.