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“La prima notte di quiete” come melodramma queer
Gran successo di pubblico del 1972, La prima notte di quiete di Valerio Zurlini viene solitamente rappresentato dalla critica come un iconico melodramma dell’eterosessualità. All’enfasi melodrammatica contribuiscono la colonna sonora e le numerose citazioni letterarie romantiche. Ma vale la pena andare più a fondo per trovare nuovi sguardi e nuove analisi di questa celebre opera con Alain Delon.
L’opera estrema del “ribelle” Silvano Agosti. “Nel più alto dei cieli” 50 anni dopo
La definizione è talvolta abusata, ma Nel più alto dei cieli è davvero un film alieno, un gioiellino nerissimo del cinema d’autore italiano – quel cinema autoriale lontano dalle luci della ribalta, bensì più nascosto e segreto, e proprio per questo così affascinante. A differenza dei film precedenti di Agosti, questo non ha protagonisti principali né attori famosi, ma una serie di personaggi interpretati da noti caratteristi – visti più volte sia nel cinema d’autore sia nel cinema di genere – accanto ad altri attori semi-sconosciuti, tutti però coi volti perfetti per i rispettivi e deformanti ruoli, in un microcosmo umano che forma un piccolo trattato sociologico sui generis.
L’uomo dai 7 capestri e il western revisionista di John Huston
John Huston, Paul Newman, John Milius: basterebbe citare questa triade per consegnare L’uomo dai 7 capestri alla storia del cinema. Mentre la Hollywood classica si incontra con quella nuova, la regia robusta e spettacolare di Huston ci regala un western mitologico e “di confine”, costantemente sospeso fra varie dimensioni: fra realtà storica e immaginazione, fra ironia e violenza, fra la nostalgia per il vecchio West e la modernità che avanza, con personaggi sopra le righe e scelte registiche d’avanguardia rispetto ai tempi.
“Il fascino discreto della borghesia” 50 anni dopo
Il fascino discreto della borghesia resta un film emblematico, seminale, lontano da ogni possibile (fin troppo semplicistica) catalogazione. Il film di Luis Buñuel, complice la sceneggiatura scritta a quattro mani con Jean-Claude Carrière (entrambi creeranno le basi per quello che sui può definire il “nuovo surrealismo cinematografico”) non è altro che un ritorno alle origini. Non solo a quel Un chien andalou (1929), folle esperimento che andava addirittura già oltre i dettami surrealisti, diretto e interpretato insieme a Salvador Dalí, ma anche e soprattutto a una sorta di esplosione metaforica (visiva e narrativa) del successivo L’ âge d’or (1930).
Aguirre che volle farsi re. I 50 anni del capolavoro di Herzog
L’ossessione di Aguirre è lo specchio dell’ossessione cinematografica di Herzog, per cui la storia narrata e le avventure del set formano un tutt’uno, con le riprese condotte in situazioni naturali estreme: girato con un budget ristretto, fra le ostilità della giungla e del fiume, la realizzazione di Aguirre diventa un’opera titanica come l’impresa compiuta dei protagonisti, un’impresa che tende all’Assoluto, volendo sfidare i limiti della natura e dell’uomo, e lanciando una sorta di sfida a Dio. Quella sfida che Lope de Aguirre lancia al Creatore, in particolare nel delirante dialogo dove si autoproclama “il più grande traditore”, “il furore di Dio”, colui che può decidere della vita e della morte del mondo intero.
“Sbatti il mostro in prima pagina” cinquant’anni dopo
Ereditato da Bellocchio in corso d’opera, dopo i dissapori dell’autore e regista sino a quel momento Sergio Donati con Volonté e la produzione, Sbatti il mostro in prima pagina è passato per certi versi alla storia come una creatura del regista a metà, come un Bellocchio non in purezza. Se è vero che manca una sua certa tipicità di racconto, quel classico taglio psicoanalitico-ancestrale sulle strutture del potere (che tornerà subito dopo in Marcia trionfale del 1976), è pur anche vero che il Bizanti di Volonté è in fondo l’ennesimo cattivo genitore della sua filmografia, per il giovane giornalista che si accinge a entrare nel mondo.
“Milano calibro 9” cinquant’anni dopo. La città di zucchero e catrame
In una sorta di determinismo ambientale le storie sulla mala milanese non permettono di raccontare i personaggi senza prima mostrare nel dettaglio i luoghi che abitano. E così le ambientazioni di Scerbanenco prima, e di Fernando Di Leo poi, hanno il pregio di sopravvivere a una Milano che cambia, sovrapponendosi alla topografia di una città nuova e smagliante, che per niente al mondo ora ricorda quella precisa rarefazione di Milano Calibro 9 o la precarietà dei cantieri e degli sfasciacarrozze di La Mala ordina (sempre del 1972, il secondo film della cosiddetta trilogia del milieu) .
“Macbeth” di Roman Polanski in un labirinto di specchi
Nel Macbeth di Polanski il cinema non è un modo per guardare le proprie ossessioni ma solo per perdersi dentro di esse, come in un labirinto di specchi. Il farmaco che l’uomo deve darsi da solo forse esiste, ma Polanski non ci crede o non lo conosce. La storia si afferma sull’arte ma solo piegata al desiderio: nel finale Donalbain, che fu storicamente re dopo Malcom, torna dalle streghe. Questo è l’unico vero tradimento a Shakespeare, il cui testo, anche se reso con naturalezza non teatrale, è seguito fedelmente. Il sigillo del regista sulla sua opera: la storia domina sulla finzione artistica e il finale positivo di Shakespeare è superato dal ciclico affermarsi del desiderio.