“Je t’ai toujours aimée”, dice in francese un inaspettatamente dolce Max Von Sydowa Romy Schneider nelle scene finali de La morte in diretta (1980) di Bertrand Tavernier, un film tutto parlato in inglese. Lei ricambia il suo sguardo, guarda in macchina verso di noie sorride con piacevole sorpresa “En français?”. Fino a quel momento, volevo scrivere del film di Tavernier come un commento sulla morte del divismo per la perdita di aura della star, imputabile alle cronache mondane e scandalistiche che pretendono di annullare le vite private mettendo le celebrità sempre a disposizione del nostro sguardo. In questo, l’interesse morboso della televisione e della stampa per Katherine Mortenhoe, la protagonista della storia, rispecchia quello per l’attrice che la incarna. Poi, questo breve scambio in francese, la delicatezza di Max Von Sydow oltre la sua frigidità nordica e il volto un po’ appesantito di Romy Schneider che si illumina improvvisamente in un mezzo sorriso di bravura mi fanno sognare e cambiare idea. Trattato generalmente come un film “fantaetico” o “fantapolitico” per l’ambientazione in un futuro distopico, La morte in diretta riafferma la capacità del cinema di produrre storie e immagini di poesia che ci fanno prendere coscienza dei nostri sentimenti e dei valori per cui vivere.

La rete televisiva NTV propone un contratto milionario a Katherine Mortenhoe per documentarne la morte imminente. La donna accetta anche per compiacere il secondo marito ma presto scappa per sottrarsi alle telecamere e rivedere il suo primo marito Gerald (Von Sydow) di cui ha mantenuto il cognome. Non si rende però conto che Roddy (Harvey Keitel), l’uomo che l’aiuta nella fuga, è in realtà al soldo del canale televisivo che, grazie all’ultimo ritrovato tecnologico, ha impiantato nei suoi occhi due telecamere. Katherine diventa a sua insaputa una personalità televisiva, ma riuscirà ad eludere la morte in diretta, scrivendo finalmente lei l’epilogo della sua storia.

Tutto ne La morte in diretta parla di cinema, produzione dell’immagine, sogni e creazione artistica. Lo stesso lavoro della protagonista, programmatrice di romanzi di successo, ha a che fare con la morte della fantasia nella Glasgow distopica del film: Katherine non crea, ma imposta solo dei parametri per la creazione di storie da parte del computer attraverso un repertorio di storie già raccontate. “Siamo davvero così stanchi per inventare le nostre storie?”, si chiede Katherine in un momento di frustrazione artistica. Ci sono poi tutte le immagini filmate attraverso gli occhi di Roddy che il produttore televisivo paragona agli scatti di Jacob Riis, pioniere della fotografia sociale attraverso cui i liberal di inizio novecento si insinuavano voyeuristicamente nelle vite dei poveri. Allo stesso modo, Roddy fa entrare gli spettatori di NTV dentro la vita di Katherine che, ignara, si toglie la parrucca nera comprata per nascondere la sua identità e, nella migliore tradizione dei colpi di scena da soap televisiva, rivela: “Sono Katherine Mortenhoe!”. Lo stesso ufficio del produttore televisivo è tappezzato di poster di film di fantascienza, dell’orrore e del western The Tall T (I tre banditi, 1957). Quest’ultimo, nonostante l’ambientazione diversissima, mantiene alcuni punti di contatto con La morte in diretta, in particolare nell’atteggiamento compiacente del marito della protagonista verso i suoi rapitori. Infine, la scena in cui Gerald spiega a Katherine il compositore medievale Robert De Bauleac mentre i due ascoltano la sua musica è anche questa un’esaltazione della fantasia e dell’immaginazione in quanto il compositore non è mai esistito.

“En français?”, con la macchina da presa che coglie quel sorriso accennato, è il miglior modo per concludere la retrospettiva su Romy Schneider celebrandone la capacità di creare emozioni e di esaltare, sostenuta dalla regia di Tavernier, l’immaginazione cinematografica.