La riscoperta di The Watermelon Man (1970) di Melvin Van Peebles, unico film del regista ad essere prodotto da una major come la Columbia Pictures, arriva tempestivamente in un momento di rinnovata militanza per gli Afro-Americani, le cui vite vogliono riconquistare spazi di dignità oltre gli stereotipi culturali e le violenze istituzionali. Jeff Gerber è un assicuratore bianco razzista e grossolano, ossessionato dalle lampade abbronzanti e con una perfetta famiglia da sogno americano. Una mattina si sveglia con la pelle nera: questo cambiamento improvviso è l’origine di una narrazione comica e surreale che decostruisce il nostro repertorio razziale di stereotipi sociali e cinematografici. Per tutto il film, Gerber tenterà comicamente di lavare via il nero e tornare bianco, ma, alla fine, politicamente, abbraccerà la militanza per la sua nuova razza.

Fin dal riferimento all’anguria nel titolo originale, il bersaglio di Van Peebles è doppio: certamente le convenzioni sociali, ma anche le convenzioni cinematografiche. Così l’anguria del titolo evoca tanto il frutto associato a sporcizia, pigrizia e infantilismo come tratti afro-americani quanto le scene in Birth of a Nation (1915) di Griffith in cui i corrotti nordisti esortano gli schiavi a smettere di lavorare e mangiare anguria. La mancanza di desiderio sessuale di Gerber da bianco e la sua costante ricerca di sesso una volta diventato nero giocano con lo stereotipo del nero come attentatore della virtù della donna bianca, una credenza sociale popolarizzata da innumerevoli sequenze cinematografiche (ancora una volta Birth of a Nation, a titolo d’esempio, con il sacrificio di Flora Cameron).

La scelta degli interpreti non è meno importante delle scelte narrative per il rovesciamento degli stereotipi. La produzione voleva una star bianca come Jack Lemmon o Alan Arkin per interpretare Jeff Gerber, ma Van Peebles impose il comico afro-americano Godfrey Cambridge. Grazie a questa scelta, si rovescia la convenzione per la quale erano attori bianchi ad interpretare personaggi neri ricorrendo all’odioso blackface e, nelle prime sequenze del film, è invece Cambridge a recitare un personaggio bianco in whiteface con un effetto perturbante che mette in discussione il concetto di purezza razziale. Stessa strategia per la scelta di Mantan Moreland nel ruolo di Joe, il cameriere della tavola calda frequentata da Jeff. Moreland era famoso per aver interpretato, anche in serie di film di successo come quelli di Charlie Chan, una galleria di personaggi neri rozzi e sottomessi, noti collettivamente con lo stereotipo del coon (“buffone, baluba”). Nella scena in cui l’ancora bianco Jeff beve alla salute di Joe dopo aver definito i neri scarafaggi, Moreland riesce a coniugare lo strabuzzare gli occhi, caratteristica dei suoi ruoli da buffone, con un’espressione perplessa che simbolizza il suo disgusto per il cliente e, in modo meta-filmico, il rifiuto di tutti i personaggi servili da lui interpretati, incluso lo stesso Joe fino a quel momento.

La critica meta-cinematografica del film alla rappresentazione razziale è tanto politica e radicale quanto quella al privilegio, al razzismo bianco e alle condizioni sociali degli Afro-Americani. Significativamente, le sequenze iniziali di presentazione della perfetta famiglia di Jeff, dove le convenzioni di riferimento sono quelle della sitcom americana, sono alternate a cinegiornali sugli scontri razziali degli anni '70. Spesso considerato come un mero preludio alla vera carriera di Van Peebles da autore indipendente, The Watermelon Man mostra già un regista che usa le risorse economiche mainstream per girare un film personale, il cui protagonista, nonostante lo sceneggiatore bianco (Herman Raucher), non diventa l’ennesimo tragico mulatto che suscita la pietà di progressisti bianchi ma uno dei primi militanti di celluloide del Black Power.