"Non ti ho mai perdonato la faccenda de La ricotta. Guarda, La ricotta è la più bella cosa che hai fatto. Quarantacinque minuti di una bellezza indiscutibile, come forma, come colori, come contenuto e come struttura drammatica. Ed è certo anche la cosa più religiosa in assoluto che io abbia mai visto. Naturalmente hai preso 4 mesi per vilipendio alla religione! È stato un disastro perché il film è stato sequestrato non ha più circolato: trecento milioni buttati. Che fatica poi rimettermi in pari! E tutto questo per una tua cretinata. Forse il processo ci sarebbe stato lo stesso, ma mettere il nome di un noto magistrato al personaggio più ignobile del film non ci ha certo aiutato.”

Con queste parole il produttore Alfredo Bini ricordava Pier Paolo Pasolini all’indomani della sua scomparsa, e forniva la chiave di lettura più attendibile per comprendere la reale dimensione di una delle vicende censorie più oscure del cinema italiano: la furia cieca con cui la censura si scagliò contro La ricotta, il mediometraggio di Pasolini, episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G. (1963), travolgendolo in un ferale processo per vilipendio alla religione di Stato.

Dopo solo dieci giorni di vita nei cinema, il primo marzo del 1963, i carabinieri irruppero durante la proiezione del film nella sala del cinema Corso di Roma, per sequestrare la pellicola con l’accusa di “vilipendio”. L’accusa fu sostenuta alacremente dal procuratore della repubblica di Roma Di Gennaro (un appassionato di cinema) che, per la prima volta, fece entrare una moviola in tribunale per avanzare, fotogramma dopo fotogramma, le sue accuse  contro il film che riteneva “il cavallo di Troia della rivoluzione proletaria nella città di Dio”. L’attacco fu così efficace che, solo una settimana dopo il sequestro, Pasolini venne condannato a quattro mesi di reclusione per vilipendio, con la condizionale. Il film non avrebbe circolato fino a novembre dello stesso anno, quando fu rimesso in giro “grazie” all'accettazione di alcuni tagli ed il nuovo titolo di Laviamoci il cervello.

Ed è proprio di questi tagli che qui vi vogliamo raccontare. Grazie ad un lavoro straordinario di recupero (e restauro) effettuato dalla Cineteca Nazionale di Roma, è stato scritto un nuovo capitolo nella storia della vita di questo piccolo grandissimo film, che da oggi cambia forma, mostrandosi nella sua versione “director’s cut”, ossia, nella versione originaria che Pasolini gli aveva dato prima dell’impatto con le forbici dei censori.

Nell’incontro di presentazione della versione restaurata de La ricotta tenutosi durante l’ultima edizione del Cinema Ritrovato, Francesca Angelucci e Alberto Anile hanno raccontato la vicenda fortuita e incredibile del ritrovamento di una copia abbandonata del film Ro.Go.Pa.G. nei magazzini delle frontiere doganali ferroviarie, tra materiali destinati al macero. Una versione “intatta” de La ricotta di Pasolini, prima che l’urgenza del processo ne pretendesse i rimaneggiamenti, i tagli di circa dieci metri di pellicola (in tutto pochi secondi di girato tagliuzzato nella scena dello spogliarello fra comparse della troupe), i ri-doppiaggi, gli spostamenti di primi piani con altri: La ricotta come Pasolini l'aveva pensata montata e licenziata per le sale.

Un ritrovamento straordinario che, grazie alle nuove tecnologie digitali, ha reso possibile il recupero ed il restauro dal positivo del film, quasi a livelli di ripresa da un negativo, insieme al ripristino della colorazione originaria a partire da uno stato di degrado del colore tale che aveva virato al rosso l’azzurro dei tableau vivant di Pontormo. Inoltre, con quello che Roberto Anile ha definito “un piccolo azzardo”, ma ponderato, “sono stati reimmessi nella pellicola i pezzetti dei tagli di censura, con un lavoro certosino, invisibile e molto rispettoso” di quella che doveva essere la versione iniziale, come per uno minuscolo di circa tre secondi a cui mancava il sonoro, ma essendo una scena musicata, ha potuto essere reintegrato con una duplicazione della traccia audio.

Sono dunque pressappoco impercettibili le differenze tra la versione “nota” fino ad oggi de La ricotta e questa nuova “recuperata”. I tagli della scena dello spogliarello erano stati effettuati già prima dell’uscita in sala nel ‘63, quindi all’epoca non li vide nessuno. Bini dichiarò “Mi sono preoccupato, per rendere possibile la proiezione del film, di eliminare dall’opera le parti per le quali si è evidenziato il reato contestato”. Dunque fu operato un rimaneggiamento del film con pochi secondi di taglio, dialoghi tagliati, ma senza in verità un cambiamento sostanziale.  

La prima modifica è evidente nel cartello iniziale, un cartello predittivo nel quale Pasolini dimostrava di aspettarsi le successive reazioni dei benpensanti a tal punto da scrivere nella didascalia originaria (che qui vediamo grazie alla copia recuperata): “Non è difficile predire a questo mio racconto una critica dettata dalla pura malafede. Coloro che si sentiranno colpiti, infatti, cercheranno di fare credere che l’oggetto della mia polemica sono quella Storia e quei Testi di cui essi, ipocritamente, si ritengono i difensori. Niente affatto, a scanso di equivoci di ogni genere, voglio qui dichiarare che la storia della Passione è la più grande che io conosca, e i Testi che la raccontano, i più sublimi che siano mai stati scritti”.

Didascalia che fu subito moderata e sostituita da una più tenue, eliminando le parole incriminate malafede e ipocritamente, considerate strali diretti contro le autorità religiose. Il nuovo cartello recitava “Non è difficile prevedere per questo mio racconto dei giudizi interessati, ambigui, scandalizzati. Ebbene io voglio qui dichiarare che, comunque si prenda La ricotta, La storia della passione - che indirettamente La ricotta rievoca - è per me la più grande che sia mai accaduta e i Testi che la raccontano i più sublimi che siano mai stati scritti”. Pasolini è dunque “punito” in primo luogo per aver imputato di malafede, anticipandoli, i suoi accusatori, nonostante avesse cercato di mettere le cose in chiaro da subito con la citazione del Vangelo secondo Matteo in apertura del film: “Non esiste niente di nascosto che non si debba manifestare e niente accade occultamente, ma perché si manifesti. Se qualcuno ha orecchi per intendere, intenda”.

La seconda immagine tagliata è quella di un Cristo (con barba) che ride sulla croce, nel tableau vivant del Pontormo. Il Cristo sorridente viene reputato offensivo tanto da essere tagliato e sostituito da una donna che ride. Pasolini rispose all’accusa di vilipendio per il Cristo sorridente, che “non è Cristo a ridere, ma l’umile che interpreta Cristo, che non è neanche il Cristo, ma il Cristo profanamente raffigurato dal Pontormo”. Dal tenore dei rilievi mossi dai censori risulta evidente che durante questo processo Pasolini venne accusato per qualsiasi cosa (per aver raffigurato il Cristo sorridente, con barba e poi senza barba, per aver usato il colore e per il b/n, etc etc) e per ciascuna accusa egli provò a difendersi puntualmente.

Dalla versione “epurata” erano scomparse, in terzo luogo, alcune parti di sequenze come il bivacco sulla croce ritenuto estremamente offensivo e su cui Pasolini ribatte (negli atti del processo) dichiarando che si tratta di “cialtroneria picara della troupe in ozio, ossia descrizione oggettiva di come la religione è sentita dal mondo esterno rappresentata ai suoi vari livelli nel mio film, appunto dalla troupe”. O come il breve scambio di battute tra il giornalista e una delle comparse, che consuma il suo pasto seduto sulla croce e che alla domanda ‘come è il panino?’ risponde con un rutto per cui Pasolini si difende dicendo “il rutto sulla croce non è un rutto, ma è il verso di chi, morto di fame come Stracci, si è finalmente rimpinzato".

Il rutto di un sottoproletario in faccia ad un borghese in realtà suggerisce, più che un vilipendio alla religione di Stato (che pure in questa scena è di fatto messa per così dire “sotto le chiappe” del proletario) una fortissima matrice ideologica di stampo marxista, per nulla dissimulata dal suo autore, che sceglie di inscenare una rappresentazione “di classe” in cui il sottoproletariato è arruolato per interpretare le comparse del film, distinguendosi per villania, volgarità, blasfemia, grettezza d’animo. Il cinismo imperante nella traccia sotterranea del film appartiene tanto a Stracci (che non esita a vendersi il cagnolino della protagonista per due lire) quanto ai suoi colleghi sul set e non ultimo al regista marxista e costituisce una critica aspra della società capitalistica per come viene rappresentata nella sua totale assenza di umana empatia, di grazia, di amore. 

L’inserto dello spogliarello fra comparse è di certo la parte del film che ha maggiormente risentito dei tagli, in parte già tagliata prima di arrivare nelle sale nel 1963, ma successivamente ancora ridotta in seguito al processo, e relativamente ai fotogrammi in cui Stracci, legato immobile sulla croce, ha dei singulti di reazione a quanto sta accadendo (indigestione e/o spogliarello). Pasolini venne per questo accusato di mostrare momenti “non adeguati”, probabilmente il gusto censorio per le allusioni aveva intravisto nei singulti di Stracci qualcosa di molto diverso da sussulti digestivi, e quindi anche questi brevi secondi furono epurati, e li ritroviamo invece in questa versione restaurata. Pasolini aveva difeso questi tagli dicendo che “i movimenti preagonici che Stracci compie alla fine dello spogliarello sono l’evidenziazione del trauma fisico di Stracci”.

Altro taglio importante poco prima della fine della scena è il dialogo tra Cristo e Stracci in cui Cristo (qui ripreso fuori dal set senza barba) dice a Stracci “eccoli i tuoi padroni” e Stracci risponde, “perchè i tuoi no?” E questo era stato completamente tagliato. E altri tagli sono operati direttamente nei dialoghi come per esempio per quello che riguarda la scena del tableau vivant in cui il regista urla contro la troupe: “Sbrigarsi, siamo pronti il disco! No, non quello! Idioti, incoscienti, ogni volta è così cambiate il disco. Ahi idioti, maledetti! Il disco, il disco Scarlatti!” e che viene cambiato in “Sbrigarsi, siamo pronti il disco! No, non quello! Siete peggio di quelli che giocavano ai dadi ai piedi della croce! Voi, pubblicani blasfemi, il disco, il disco Scarlatti!”

Tanto impercettibili le differenze, dunque, quanto sostanziale l’accanimento dell’accusa, che non possiamo che giustificare dunque come una forma di “ritorsione” per aver Pasolini osato “mettere il nome di un noto magistrato al personaggio più ignobile del film”, come suggeriva Bini. E infatti, un taglio tanto minuscolo quanto significativo è quello operato sulla battuta del giornalista, che quando arriva sul set diceva “Sono Pedoti del TeglieSera”. Il nome viene tagliato e questo risulterà poi essere il nodo di tutta la vicenda, appunto.

Pasolini si era voluto togliere un sassolino dalla scarpa dando al personaggio più mediocre del film il nome del noto magistrato Pasquale Pedote, che aveva condannato Franco Citti nel ‘62 (per una rissa notturna in stato di ubriachezza) a un anno e tre mesi di carcere. Il giornalista Pedoti è presentato come “uomo medio mostro pericoloso delinquente conformista colonialista schiavista razzista qualunquista” e questo è un vero e proprio attacco sferrato da Pasolini alla magistratura (o così fu interpretato). E poiché i giudici del Processo alla Ricotta di Pasolini erano gli stessi che venivano qui attaccati, ecco svelato il motivo dell’accanimento contro il film.

Per concludere, anche l’ultima frase del regista del film che commentava la morte di Stracci come “il suo unico modo per fare la rivoluzione” fu trasformata nel più innocuo “per ricordarci che anche lui era vivo!”. Via il fantasma della rivoluzione al capitalismo, e largo spazio ad una interpretazione più ingenuamente esistenziale che mette gli uomini di fronte a via d’uscita obbligate: la morte al posto di una non vita.

Per concludere, il ritrovamento archeologico e la ricostruzione filologica operate dalla Cineteca nazionale cambiano la storia del film, perché confermano, di fatto, che la sostanza dei tagli inflitti alla pellicola originale de La ricotta non fu una sostanza di fatto, ma piuttosto di concetto, e la guerra a Pasolini fu sferrata sulla base di sfumature di lettura del film considerato qui e là come minaccioso per la religione di Stato o forse anche per lo Stato stesso, anziché giocarsi sulla concretezza di scene perturbanti o offese del pudore. Da oggi in poi, come ha detto Alberto Anile, avremo quindi la possibilità di vedere “un film più esplicito più forte più duro più provocatorio” che era quello da Pasolini licenziato per gli schermi, recuperando, allo stesso tempo, la lucentezza dei colori e del bianco nero, con la vividezza delle accuse mosse dal grande regista e intellettuale alla società contemporanea. Senza sconti nè ipocrisie, senza conformismi.

“Il senso del film non era la polemica religiosa,- scrive Pasolini- non era questa una componente essenziale del racconto, ciò che mi interessava era la descrizione del personaggio di Stracci, dal punto di vista poetico: un personaggio vivo e vero. Questa era la cosa fondamentale: l'aspetto ideologico del film. Altra componente: l’aspetto contenutivo. Chiedendomi quali fossero gli aspetti essenziali del sottoproletariato che lo Stracci era chiamato a simboleggiare, ho pensato allora alla vitalità, il vitalismo allo stato puro, e alla religiosità.”