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“Armageddon Time” famigliare e politico
Gli anni Ottanta che Gray mette in scena non hanno niente delle colorate e nostalgiche ricostruzioni pop che popolano tanti piccoli e grandi schermi degli ultimi anni: i sobborghi della Grande Mela dove si muove il protagonista sono spenti, le case anguste, le scuole pubbliche fatiscenti e abbandonate dai finanziamenti statali, le metro una replica meno metafisica e assai più concreta di quelle dei Guerrieri della notte. Ovunque si avverte una tensione sociale e razziale figlia di quegli anni difficili (seppur cotonati e avvolti dalla disco music) a un passo dall’elezione a presidente di Ronald Reagan, che non avrebbe certo migliorato le cose.
“Ad Astra” di James Gray a Venezia 2019
James Gray torna nuovamente a dirigere e sceneggiare due dei suoi temi cardine: il rapporto padre-figlio e la solitudine dell’individuo. Il protagonista deve convivere con un senso di solitudine che lo attanaglia, ma rifiuta comunque di prendere gli stabilizzatori dell’umore e la macchina rilevatrice dei parametri di salute non capisce che il suo paziente non è nelle condizioni giuste per compiere la missione. La solitudine è centrale sia nei lunghi monologhi in voice over, sia nei primi piani che evidenziano la chiusura in se stesso del personaggio. Gray tratta quindi entrambe le tematiche che lo hanno reso noto dai tempi di Little Odessa (1994) e I padroni della notte (2007) con meno aggressività, come se il suo sguardo si fosse perso nella cura di altri aspetti scrutando lo spazio insieme al suo personaggio.