Siamo nella New York degli anni Ottanta, più precisamente nel quartiere – allora più popolare e meno gentrificato di quanto non sia oggi – del Queens. Paul Graff è il figlio minore di una famiglia ebraica di seconda generazione, che ancora porta sulle spalle le atrocità dell’Europa del secolo breve. A differenza del fratello maggiore, spocchioso e provocatore, frequenta la scuola pubblica ed è uno spirito libero, in perenne contrasto con i genitori. Gli unici con cui riesce a legare sono il nonno, per lui un vero punto di riferimento, e Johnny, il solo ragazzo di colore della sua classe, costantemente preso di mira da un professore che lo considera già, per sua stessa natura, irrecuperabile.
L’autobiografia è un territorio insidioso, ancora di più quando ci si addentra nella terra straniera dell’infanzia: il rischio è di essere troppo vicini al soggetto, di perdere la messa a fuoco. James Gray con Armageddon Time evita le insidie scegliendo una strada inusuale (per il genere ma non per il suo cinema), che raffredda il risultato ma ne esalta i sottotesti, che perde in emotività e immediatezza quello che guadagna in profondità.
Mettendolo a paragone con The Fablemans di Spielberg, che si muove sullo stesso terreno, appare evidente come obiettivi e risultati siano diversissimi: Spielberg piega, pur evitando idealizzazioni, la realtà all’immaginazione, scegliendo un ricordo ironico e commosso; in Gray non c’è nessuna epica ma solo grigia realtà, concretamente working class. Gli anni Ottanta che mette in scena non hanno niente delle colorate e nostalgiche ricostruzioni pop che popolano tanti piccoli e grandi schermi degli ultimi anni: i sobborghi della Grande Mela dove si muove il protagonista sono spenti, le case anguste, le scuole pubbliche fatiscenti e abbandonate dai finanziamenti statali, le metro una replica meno metafisica e assai più concreta di quelle dei Guerrieri della notte. Ovunque si avverte una tensione sociale e razziale figlia di quegli anni difficili (seppur cotonati e avvolti dalla disco music) a un passo dall’elezione a presidente di Ronald Reagan, che non avrebbe certo migliorato le cose.
Un mondo sull’orlo dell’apocalisse, che si può salvare solo ricordando. La memoria, infatti, sembra essere per Gray l’antidoto a tutto questo, la base su cui costruire una resistenza (non facile da perseguire) a una società che vorrebbe farci girare la testa dall’altra parte. L’empatia con il prossimo si costruisce solo non dimenticando le sofferenze del passato, proprio, certo, ma anche e soprattutto storico e familiare. Non è un caso che la figura più importante per il piccolo Paul, l’unico adulto che lo capisca e lo ascolti, sia suo nonno, simbolo di radici rimosse ma ancora solide, a cui Anthony Hopkins dona saggezza e tenera autorità. Gray sente la necessità di fare i conti con le proprie origini, quasi cancellate nel suo cognome ebraico ‘americanizzato’, e qui rivendicato. Un processo inverso a quello di omologazione tentato da nonni e genitori per non essere esclusi da una società che “non ha bisogno di altri ebrei”.
È questo il film più politico di Gray, dove gli anni della Reagan revolution sono raccontati con cupo disgusto, creando un ponte diretto con la moderna epoca trumpiana. Come finanziatori ed ex-alunni della scuola d’élite (dichiaratamente razzista, antisemita e conservatrice) in cui il protagonista viene mandato per allontanarlo da quella pubblica “dove cominciano ad andare anche i neri” compaiono proprio il padre e la sorella dell’ex presidente USA. Il discorso di Maryanne Trump è un esempio orribile e perfetto di quella retorica del merito che ignora, con dolo, il fatto che il punto di partenza (per classe, religione, sesso, colore della pelle) non è lo stesso per tutti, che la corsa verso la cima è truccata.
Anche la violenza ‘comune’ dei genitori (picchiare i bambini non era né raro né condannato), i loro piccoli desideri borghesi, la loro rabbia e la loro disperazione, sembrano far parte di un mondo frustrato e senza prospettive, che anela a raggiungere almeno un frammento di un sogno americano già definitivamente infranto.