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Le icone di Jane Birkin e Jane Fonda

Citizen Jane, l’Amérique selon Fonda (F. Platarets, 2020) e Jane Birkin, simple icône (C. Cohen, 2019) sono due documentari che ci pongono davanti al concetto di “icona” in quanto immagine-portavoce di significati indiretti, l’essenza estetica che diventa configurazione collettiva attraverso narrazioni politiche, sociali e culturali. Due nomi che con le logiche dell’agire pubblico e privato, tra battaglie personali e comunitarie, hanno contribuito a segnare i cambiamenti di un’epoca costruendo un percorso di autoaffermazione imprescindibile. Jane Fonda, la femme fatale, figura attoriale inizialmente plasmata sulle fantasie di un pubblico prevalentemente maschile, costretta costantemente a misurarsi col nome del padre. Jane Birkin, la “petite baby doll” della swinging London trapiantata in Francia, indissolubilmente legata nell’immaginario collettivo al musicista Serge Gainsbourg. 

“Jane B. par Agnès V.”, un tour de force interpretativo

L’obiettivo di Agnès Varda in Jane B. par Agnès V. (1988) è ambizioso: reinventare il modo di filmare una biografia. Non più quindi il classico stile documentaristico, con il protagonista che si rivolge alla cinepresa raccontando la sua vita, corroborato da immagini descrittive e testimonianze altrui, ma qualcosa di diverso. L’idea, molto cinematografica e molto nouvelle vague, è che si possa rendere più fedelmente l’essenza di una persona con l’artificio che attraverso il presunto realismo di un approccio descrittivo. E così la pellicola alterna alcune scene in cui la protagonista Jane Birkin parla di sé, in maniera se non recitata senz’altro molto studiata, ad altre in cui interpreta brevemente vari ruoli fra i più ostentatamente disparati, da Giovanna d’Arco a Calamity Jane.