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“Fuori” e la poetica degli spazi

Martone, che ha firmato la sceneggiatura insieme a Ippolita Di Majo, sceglie di raccontare un momento preciso dell’autrice, quello di poco successivo all’esperienza nel carcere di Rebibbia. Goliarda, dopo un maldestro furto, trascorse solo cinque giorni dietro le sbarre, ma quel lasso di tempo fu sufficiente per capire, vivere e amplificare una realtà socio-antropologica che riprenderà vita nel libro dall’antifrastico titolo L’università di Rebibbia.

“The Shrouds” speciale II – In fondo alla morte c’è l’Eros

La risposta alle oscure esplorazioni dentro il mondo di Thanatos non può essere che l’Eros: prima attraverso la rievocazione onirica e menomata (ma non meno erotica) del corpo della moglie, poi nel corpo simile della cognata (il tema del doppio, ancora una volta) e, in ultimo, l’evasione con una donna ricca e cieca (con lei Karsh può assumere nuove fattezze, quindi un nuovo corpo e una nuova esistenza).

“Heretic” e la riduzione del superfluo

Il film si compone di una prima parte puntellata di dialoghi che vanno a formare una sorta di vera e propria disquisizione teologica sul tema dell’esistenza di Dio, sulle affinità tematiche e teoretiche tra le varie religioni (presentate una come iterazione dell’altra) e sul rapporto tra libertà individuale e predestinazione. La seconda parte, invece, si pone come quella più classicamente thriller/horror.

“No Other Land” speciale I – Distruggere e ricostruire l’umanità

L’alternanza di sequenze frenetiche e altre riflessive, lo spazio dato all’ampiezza dei paesaggi polverosi della Cisgiordania ma anche ai volti dei testimoni, e in genere l’attenzione a certi dettagli e ad alcuni dialoghi rivelatori iscrivono il documentario, certamente non avendolo meditato in anticipo, a una tradizione militante e civile, che fa capo a Joris Ivens, dove chi tiene la camera in mano mette a repentaglio la propria vita.

“La stanza accanto” speciale I – L’umanità fredda

La stanza accanto è un film a due voci (solo sporadicamente include un terzo personaggio consistente, interpretato da John Turturro), a tratti quasi una pièce teatrale, in virtù della pervasività dei dialoghi tra le due donne che vanno a comporre una vera e propria dissertazione sulla morte. Almodóvar realizza una sceneggiatura densa, capillare, razionale e profondamente analitica che viene umanizzata dalla bravura delle due attrici protagoniste.

“The Dead Don’t Hurt” tra tradizione e modernità

Viggo Mortensen, a sessantacinque anni ma alla sola seconda prova da regista, dimostra una maturità artistica non comune, capace di muoversi tra tradizione e modernità all’interno di uno dei generi più codificati e, ormai, meno frequentati del cinema. The Dead Don’t Hurt è un’opera che attesta una coerenza artistica, per idee e loro realizzazione, di sicura maestria, in un momento storico in cui sovrabbondano i prodotti imprecisi, poco meditati e furiosamente dati in pasto al pubblico.

“Familia” tra sacrificio e castigo

Quella di Familia non è di certo una storia nuova o mai vista; tuttavia, è una storia, ahinoi, ancora molto radicata nella realtà e quindi ancora necessaria. Costabile mette lo spettatore di fronte alla distruzione, fisica ed emotiva, a cui la violenza domestica può condurre, oltre che alle conseguenze devastanti e ai danni irreparabili che tale persecuzione può provocare come in un tunnel in fondo al quale non si vede mai la luce.

“Il tempo che ci vuole” e il ritratto amorevole del padre

I ricordi e le esperienze personali, prima di farsi prodotto artistico, hanno spesso bisogno di un lungo arco temporale per fermentare e trovare le parole e le immagini giuste per farsi racconto e storia universali. È quello che è accaduto a Francesca Comencini nella realizzazione di un film che è un atto d’amore verso il proprio padre. Infatti, oltre alla regia elegante e ordinata, a investire lo spettatore è una emozionalità potente che scaturisce da un sentimento profondo per una figura paterna caratterizzata dalla gentilezza e dalla bontà.