L’unico film italiano in concorso a Cannes 78 e un progetto con l’intento di portare sul grande schermo una scrittrice italiana del secondo Novecento troppo a lungo ignorata come Goliarda Sapienza: Fuori di Mario Martone, fin dalle premesse, era un lavoro atteso con molta curiosità.
L’Italia e la sua cultura letteraria vivono spesso di meteore, fluttuazioni improvvise e impreviste, (ri)scoperte fulminanti e inabissamenti inspiegabili. Questa volta è stato il turno di Goliarda Sapienza il cui capolavoro, L’arte della gioia, è stato ripetutamente rifiutato dagli editori, prima che il romanzo, nel 2008, venisse riscoperto in Francia e quindi in Italia, con quella fastidiosissima tendenza nostrana a tessere le lodi di qualcosa o qualcuno che, fino a poco prima, si aveva ignorato o esplicitamente rifiutato.
Che questa autrice abbia ora il posto che si meriti è un grande bene per la nostra letteratura e, in rapida conseguenza, nel mondo del cinema è scoppiato una sorta di Goliarda Sapienza Universe. Prima la miniserie omonima del capolavoro dell’autrice sapientemente diretta da Valeria Golino, e ora un film dedicato a Goliarda con la stessa Golino a interpretare la scrittrice.
Martone, che ha firmato la sceneggiatura insieme a Ippolita Di Majo, sceglie di raccontare un momento preciso dell’autrice, quello di poco successivo all’esperienza nel carcere di Rebibbia. Goliarda, dopo un maldestro furto, trascorse solo cinque giorni dietro le sbarre, ma quel lasso di tempo fu sufficiente per capire, vivere e amplificare una realtà socio-antropologica che riprenderà vita nel libro dall’antifrastico titolo L’università di Rebibbia.
Proprio la prigione è punto di riferimento imprescindibile: esistono un prima e un dopo, così come un dentro e un fuori. È proprio quest’ultimo avverbio di luogo a dare il titolo al film, segnalando sin dalla soglia iniziale la cifra simbolica, nonché stilistica, attraverso cui leggere la pellicola.
I piani spazio-temporali, infatti, si alternano e si risignificano ripetutamente dentro e fuori la mente e il ricordo di Goliarda, rimasta profondamente segnata dall’esperienza a Rebibbia, dove ha conosciuto donne indipendenti, insofferenti alle regole e libere come Roberta (una Matilda De Angelis ribelle, scostante, sempre affascinante, ma con un accento romanesco a tratti fin troppo marcato).
Ci muoviamo quindi dentro i piccoli gesti quotidiani (i whisky e le infinità di sigarette) di Goliarda, la sua attrazione respingente (un ossimoro che, forse, ben si attaglia a un’anima inquieta) per Roberta, così come per la prigione, per il mondo reale, per i vincoli e le nette linee di demarcazione, e si potrebbe andare avanti a lungo.
Martone fa un grande lavoro sugli spazi. Il fuori e il dentro si confondono: la prigione sembra un luogo più comunitario e libero rispetto a una realtà esterna sempre più fagocitata dall’alienazione, dalla solitudine e da un’impossibilità di creare rapporti umani che non siano ambigui e ineluttabilmente fraintesi.
Le scene dentro Rebibbia si popolano di corpi, voci, emozioni; le scene al di fuori sono spesso spoglie, silenziose, trasmettono incomunicabilità. Emblematica, in questo senso, è la cena tra Goliarda, Roberta e Barbara (Elodie) nella profumeria di quest’ultima: lo spazio si fa prigione, forse l’unico luogo in cui le tre donne si sono sentite protette dalle avversità della vita.
A fare da sfondo c’è l’estate romana, che ha sempre qualcosa di marziano (parafrasando un bel libro di Tommaso Pincio): di una bellezza abbagliante ma anche muta e inavvicinabile. I personaggi sembrano muoversi su questo proscenio come corpi senza peso sospinti dal vento. E qui sta il vero problema del film: in una sceneggiatura che si perde nei suoi inseguimenti fisici e mentali, che, assecondando la forte volontà di catturare uno stato mentale, non riesce mai a dare veramente forma e intensità ai suoi personaggi.
I dialoghi non riescono a essere pregnanti: sono bloccati, interrotti e aprono costantemente varchi reticenti verso un non detto che, però, non è stato costruito, e verso il quale semplicemente si allude. Aldilà delle baruffe sentimentali tra Goliarda e Roberta c’è qualcosa di profondo, ma non ci viene offerta la chiave per esplorarlo: rimane in superficie, affascinante ma inafferrabile.
Valeria Golino è pienamente dentro l’universo letterario e umano di Goliarda Sapienza, ma il ritratto della scrittrice che emerge è quello di una donna sospesa, indecisa, con lo sguardo spesso altrove e rivolto verso una dimensione che sfiora la realtà solo sporadicamente, in potenti ma rapidi affondi. Invece la donna che ci appare ai titoli di coda, in una bella intervista di repertorio, s’impone subito come una personalità dall’eloquio deciso e diretto.
Martone prosegue una poetica dello spazio, fisico e mentale, che ritorna di frequente nella sua filmografia. Se nel precedente Nostalgia gli spazi erano perlopiù claustrofobici e nell’ombra, in questo caso i personaggi sono immersi in un fuori amplissimo e dispersivo, accecante e solitario. Alla fine, i sentimenti sono intensi, ma rimangono come bloccati sullo schermo; le interiorità sono solo sfiorate e un senso di incompletezza si richiude sulla storia e sullo spettatore.
Fuori è un film molto ambizioso e pretenzioso, che costruisce un’architettura complessa e prova a restituire la confusione di un vorticante stato mentale, ma il pubblico rischia di essere tagliato fuori da questo processo, fermo davanti a un diorama ipnotico ma di difficile comprensione.